I 5 bias cognitivi più diffusi che incontriamo durante i nostri test dell’esperienza

Cosa sono i bias cognitivi? Li sappiamo riconoscere? Influenzano il nostro lavoro? Influenzano la percezione del nostro prodotto o dei nostri messaggi comunicativi? Proviamo a rispondere a queste domande.

 

I bias cognitivi sono un elemento inevitabile e fondante della vita delle persone. O meglio: le scorciatoie mentali sono un approccio naturale e spontaneo. Questi schemi vengono chiamati euristiche e vengono adottate dalla maggior parte delle persone per semplificare la realtà e l’enorme ammontare di informazioni che essa ci presenta. Ma non sono ancora i fantomatici bias cognitivi di cui tutti parlano.

Il termine bias si può usare quando, nello schema che adottiamo per prendere decisioni, si inserisce un errore sistematico, una distorsione cognitiva, che potremmo definire come una falla nel ragionamento, che non per forza ci porta a prendere una decisione sbagliata, ma che comunque definisce il percorso decisionale che abbiamo intrapreso, sia consciamente sia non.

Bias cognitivi

Ma della dimensione teorica dei bias cognitivi vi abbiamo già parlato in un articolo dedicato. In quella sede avevamo già introdotto anche alcuni dei bias più comuni: availability, confirmation e halo effect.

Oggi vorremmo invece proporvi un nuovo elenco di 5 bias, quelli più comuni per noi. Facciamo chiarezza: nel nostro lavoro cerchiamo di rendere qualsiasi esperienza migliore per le persone che la vivono. Concretamente: un sito web, un’app, un punto vendita, un’occasione di intrattenimento, eccetera.

Quindi nell’analizzare queste esperienze, sia attraverso gli occhi dei nostri esperti sia grazie all’ascolto delle persone che le vivono, incontriamo dei bias cognitivi, che influenzano queste esperienze, nel bene e nel male. Alcuni li riconosciamo anche perché li applichiamo inconsciamente noi, in quanto persone.

Conoscerli (tutti è impossibile, sono più di 200, ma almeno i più importanti) ci permette di identificarli e di riflettere se siano un bene o un male per il nostro modo di lavorare o per il nostro business.

Bias di conferma: combattere le domande suggestive

Ripartiamo dal più comune, a cui vi avevamo già accennato nel nostro precedente articolo. Il bias di conferma è molto comune sia online che offline e fa parte di quel gruppo di bias che aiuta a filtrare le informazioni: questo schema ci porta infatti a cercare, dare importanza o notare, solo informazioni che confermino la nostra tesi iniziale.

Nel nostro lavoro il rischio di cercare inconsciamente conferma della nostra opinione è dietro l’angolo in ogni domanda di un’intervista o intervento come moderatori di un workshop o focus group. Avendo già magari notato delle evidenze che le nostre competenza ed esperienza riconoscono come assunti validi, è possibile essere spinti a porre domande che confermino quello che abbiamo notato.

Qui si rivela proprio la bravura del ricercatore: anche avendo già delle ipotesi, deve mettersi in ascolto attivo e aperto alla diversità di opinioni. Il trucco: le domande non devono mai contenere o suggerire già la risposta che vorremmo.

Evitiamo insomma quelle che vengono chiamate domande suggestive: “Non trovi anche tu che i pulsanti di un sito siano più intuitivi se ti dicono esattamente dove atterrerai?” diventerà quindi: “Come trovi questo pulsante? Dove ti aspetti di atterrare se lo clicchi?” e così via.

Apofenia: debellare schemi inesistenti

L’apofenia è una ricerca di schemi e connessioni in un insieme di dati, fatti o informazioni casuali. Si vede un pattern dove c’è solo casualità, insomma.

Questo può accadere per esempio quando si fa ricerca qualitativa: i nostri clienti sentono le opinioni delle persone coinvolte in un’intervista o in test di usabilità e pensano che queste spieghino magari il perché di una pagina poco visitata, di un contenuto poco gradito, di una campagna che non genera contatti. Invece quello che stiamo ottenendo ascoltando le persone, sono preziosi indizi per produrre delle ipotesi, le basi per iniziare la fase di ricerca quantitativa che valida queste tesi.

Per considerare le probabilità di un collegamento, una correlazione o un rapporto di causa effetto, dobbiamo sempre affidarci ai numeri in letteratura, che per esempio per un questionario online sono 120 risposte per tipologia di persone.

Bias del senno di poi (hindsight bias): sapere di non sapere

Una campagna di comunicazione è un flop, e vi viene spontaneo dire: “era ovvio che sarebbe andata così!”? Ecco questo è il bias del senno di poi, che fa parte della categoria che cerca di dare senso al mondo: quando vi ritrovate a dare per scontato o prevedibile l’esito di un evento già accaduto anche se prima che accadesse non avreste avuto alcun elemento concreto per avanzare questa ipotesi.

Per questo noi ci basiamo sull’ascolto attraverso la ricerca qualitativa e quantitativa, oltre a quello sul web: non andiamo alla cieca e non ci si può dire “ecco lo sapevo che sarebbe andata in questo modo”.

Bias di ancoraggio: un termine di paragone troppo forte

Incontriamo il bias di ancoraggio quando abbiamo a disposizione troppe informazioni e dobbiamo prendere una decisione, spesso ci affidiamo alle prime informazioni che abbiamo incontrato che andranno a influenzare anche tutte le successive.

Noi lo incontriamo quando, in fase di ricerca, indaghiamo il valore percepito di un prodotto o servizio. Prendiamo ad esempio il settore immobiliare, in particolare il portale di un’agenzia con cui abbiamo lavorato. Nella ricerca di un immobile in affitto, l’elemento che risulterà più adatto alla ricerca della persona, e quindi caratterizzato da una più alta “trovabilità”, verrà visualizzato per primo e setterà le aspettative della persona secondo il bias di ancoraggio.

Se il primo immobile presentato ha un prezzo alto, magari più alto della media rispetto alle proprie caratteristiche, il potenziale inquilino, trovando i successivi immobili con prezzi più coerenti con la media di mercato, li valuterà e percepirà come dei prodotti migliori.

Bias di risultato (outcome bias): importa il viaggio non la meta

Il bias del risultato si verifica quando si valuta la bontà della decisione sulla base del risultato piuttosto che del valore della logica che la sottende.

Questo accade per esempio nei casi in cui un cliente ci contatta per realizzare una landing page ma non ha intenzione di investire nella ricerca, e quindi in questo caso in un test per valutarne l’efficacia. La landing viene quindi progettata sulla base dell’esperienza, delle competenze e del buon senso: tutti ingredienti validi.

Ma, senza il coinvolgimento delle persone, non abbiamo la certezza che sia il miglior risultato possibile. Può capitare che la landing abbia lo stesso delle buone performance e il cliente ci dica: non valeva la pena fare il test, funziona lo stesso. Ma in realtà bisognerebbe chiedersi: abbiamo la certezza che non potesse funzionare ancora meglio?

Schemi ed errori: un sistema che funziona

Questi cinque sono solo alcuni esempi di bias, che incontriamo nella nostra quotidianità. Conoscerli e saperli identificare nei contesti reali rientra nel bagaglio di competenze che derivano dallo studio e dalla ricerca sull’uomo, che in TSW è portato avanti con il team research. Tutto ciò, combinato con tecnologie e luoghi in cui facciamo vivere in prima persona ai nostri clienti l’esperienza dei loro clienti, ci permette di progettare prodotti e servizi migliori insieme ad aziende e persone in contesti fisici e digitali.

13 febbraio 2023 Christian Caldato

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