Web Summit Day 3: insight sul mondo fashion nella giornata conclusiva

Oggi giornata conclusiva del Web Summit, che ho voluto dedicare interamente al Fashion Summit vista la vicinanza ai temi del Made in Italy e ai numerosi nostri progetti in questo ambito. Di seguito gli spunti più interessanti dagli interventi seguiti.

La comunicazione della fashion industry nell’era dei social

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Jefferson Hack (Co-founder & Publisher della stupenda rivista Dazed and Confused) e il moderatore John Paul Pryor (Editor di Flaunt Magazine) questa mattina hanno aperto il Fashion Summit dibattendo sul ruolo dei new media e il loro impatto nel settore fashion.

Jefferson Hack ha definito la comunicazione nel settore una “Karaoke Machine”, dove un assieme scarsamente differenziato di aziende, editori, influencer e altri attori si copiano uno con l’altro condividendo spesso contenuti dallo scarso valore. In questo scenario è fondamentale differenziarsi.

E proprio così hanno deciso di fare con il loro magazine (se non lo conoscete andate a vederlo e compratene una copia, ne vale la pena!), divenendo punto di riferimento e trend catcher per tutto ciò che è lifestyle, subculture e fenomeni emergenti che coinvolgono e mixano moda, musica, arte e tecnologia. Emblematico il suo quote: “D&C is the look of music and the sound of fashion”.

Is fashion industry killing creativity?

Bellissima domanda alla quale Jefferson Hack ha risposto dando la sua chiara visione: SÌ, i player della moda e i retailer (vedi H&M & Co.) producono tantissimi prodotti in modo così veloce, vendendoli altrettanto rapidamente. Tutto ciò ha un chiaro impatto negativo sul design, sulla qualità e sul valore creativo intrinseco in essi (“Burn out effect on creativity!”). Tutto ciò non è assolutamente sostenibile per produrre lavori di qualità. Chiaramente questo equilibrio è difficilissimo da gestire e pochi ci stanno riuscendo.

Parallelamente al fast fashion, esiste un nuovo grande movimento indipendentista che vuole scardinare il sistema dominante (ed è lo stesso sul quale D&C ha basato la sua mission e il suo focus). La sfida per questi player emergenti e indipendenti è quindi quella di trovare il proprio spazio nel mercato e hackerare il sistema nell’industry. Proprio questi brand emergenti e fuori dal coro sono quelli che producono la maggior innovazione nella creazione di contenuti, nell’utilizzo dei social e nella generazione di engagement che vada oltre la “conversione”. Essi perciò devono entrare nel mirino di tutte quelle aziende che vogliono individuare modelli innovativi da reinterpretare e adottare nel proprio business.

Qual è il rapporto tra i printed media e quelli digitali?

Secondo Jefferson Hack i primi sono i souvenir e l’essenza di uno show, mentre gli altri sono un’immersione profonda nello storytelling e nella veicolazione di cultura e valore. Questi due media sono devono necessariamente coesistere in simbiosi e nutrirsi l’uno dell’altro.

Sfide per le piattaforme e-commerce: il ruolo dei contenuti e della localizzazione

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Il secondo round table di ieri mattina ha visto protagonisti Christoph Lange (VP Brand Solution di Zalando), Runar Reistrup (CEO di Depop) e Amber Atherton (My Flash Trash). Il focus principale è stato il ruolo dei social e il rapporto con l’e-commerce. Tutti hanno convenuto sul fatto che essi (intesi in senso allargato) siano l’arena perfetta in cui intercettare il proprio target con armi di precisione (vedi le Facebook Ads) e connettersi efficacemente con esso. Per questo motivo sono e diverranno sempre più i principali canali di acquisizione per l’e-Commerce, specie per il target dei Millennials che pare rappresentare la più grande opportunità di sviluppo per l’industry dell’e-commerce intera (molto recentemente Riccardo ha dedicato un post per descriverli) .

Interessantissima la visione e la mission della piattaforma Depop. Essa vuole rappresentare il primo step per brand neo-nati per iniziare a vendere online i propri prodotti. Il concetto è semplice: 1) creo un brand e un’offerta; 2) sviluppo una community e una fanbase; 3) inizio a vendere. Importante sottolineare il contesto in cui l’idea sta rapidamente crescendo: con i buyable pins di Pinterest e le Instagram Ads è ormai chiaro come i contenuti multimediali (foto in primis) abbiano sempre più il ruolo di call to action per l’e-Commerce. Anche in futuro a guidare la crescita di Depop saranno i Millennials, in un contesto in cui lanciare un brand è estremamente facile, immediato e democratico (lanciare, un’altra cosa è farlo funzionare :)).

È veramente necessario definire strategie di localizzazione anche per i giganti dell’e-Commerce?

Assolutamente , secondo Zalando. Christoph Lange ha portato l’esempio del lancio in Italia della piattaforma, raccontando le forti difficoltà che hanno avuto inizialmente nel guadagnare la fiducia da parte del target locale. Questo problema è stato risolto con una forte content curation orientata al mercato locale.

Altra attività di localizzazione è stata necessariamente svolta su tutto ciò che riguarda l’advertising on e offline attraverso tantissimi test, al fine di migliorarne efficacia e ritorni sugli investimenti. Infine, l’ultimo esempio portato è stato quello della Svizzera e del modo in cui il target locale acquista. Essi infatti sono soliti concentrare i propri acquisti dopo l’accredito dello stipendio alla fine del mese: ciò ha reso necessario riadattare completamente la strategia promozionale e di pricing per cercare di ottenere vendite consistenti durante tutto il mese.

Interessante anche sapere da Christoph Lange come il marketplace stia sviluppando fortemente il mercato B2B. Inizialmente infatti Zalando si è concentrata sulla customer experience dei clienti consumer. Oggi invece parallelamente si sta concentrando nel capire come coinvolgere più fortemente i partner e come soddisfare al meglio le loro esigenze, specie nel supporto all’internazionalizzazione e alla localizzazione. Questo chiaramente in risposta al fatto che tutti i brand, fashion e non, stiano investendo nel creare proprie piattaforme di vendita avanzate.

Quali sono le sfide che i pure player fashion stanno affrontando?

Secondo i partecipanti al round table:

  • Migliorare la User Experience
  • Creare contenuti unici e emozionalmente ingaggianti: lo human touch è fondamentale. Non c’è altra strada per l’autenticità se non la manual curation di tutti i contenuti.
  • Sviluppare il trust dei propri clienti e fidelizzarli (per questo molti stanno introducendo nei propri store sistemi come Amazon Payments)
  • Coordinare ed eguagliare gli sforzi sia nel pre-sale, che nelle operations, che post-vendita. Tutti si sono resi conto che la customer experience non finisce con la vendita, perciò si orientamento alle conversioni ma contemporaneamente anche a tutto ciò che avviene prima dell’acquisition (awareness, engagement,..) e dopo (fidelization, supporto, programmi loyalty, ..).
  • Sfruttare meglio i dati per indirizzare al meglio tutte le azioni ai punti sopra

 

La democratizzazione dei media nel fashion e il ruolo dei social

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Wil Harris (Head of Digital di Condé Nast Publications), Philippe von Borries (Founder di Refinery 29), moderati da Peter Kafka (Senior Editor di Re/code) hanno discusso di come i canali digitali stiano democratizzando gli strumenti di comunicazione nell’ambito fashion.

Fino a qualche decina di anni fa l’approccio dominante era quello top-down, in cui TV e giornali decidevano trend e gusti dei consumatori. Oggi è l’esatto opposto, c’è una grandissima attenzione e ricerca dei trend che nascono dal basso (all’inizio abbiamo parlato di Dazed & Confused). In questo contesto ribaltato i social giocano un ruolo chiave per media e brand (anche se ormai siamo tutti media company e la differenza è più storica che pratica) nel comprendere i gusti delle persone e perciò per definire quali sono i contenuti sono più adatti per promuovere efficacemente i prodotti. In passato fashion era significato di perfezione. Oggi per avere successo bisogna essere disruptive e la sperimentazione nella creazione dei contenuti e nel modo di veicolarli diverrà sempre più il driver principale per la differenziazione.

Quanto ai contenuti sono emerse delle interessantissime visioni sull’evoluzione nel panorama fashion-lifestyle. Da sempre i contenuti e i contesti attraverso i quali venivano presentati i prodotti erano sfilate e grandi eventi nelle capitali della moda tutt’altro che inclusivi. Oggi la gente non ama più l’astrazione, vuole vedere i prodotti contestualizzati in scenari a cui si sente vicina e a cui ha la possibilità di immedesimarsi, vuole riconoscere con chiarezza un link con ciò che vede. L’uso dirompente di contenuti video e delle immagini deve perciò necessariamente essere guidato da questa condizione. Non si può più scommettere solo su pagine patinate, banner pubblicitari e video promozionali, sono necessari contenuti pubblicitari che celino al loro interno lo storytelling e significati sempre più sofisticati.

Venendo ai social, oggi il medium ideale per veicolare questi contenuti in contesti coerenti con essi (anzi, è il contrario: medium ideale per riconoscere i contesti ai quali i contenuti più si adattano e per diffonderli all’interno di essi!), nell’esperienza di Refinery 29, essi sono passati dal 5% al 40% della revenue. Conferma Condé Nast, la curva del fatturato della stampa è flat. Il grande svilppo del loro business sta nell’advertising online (specialmente nell’adv multimediale più sofisticato) e nei social.

In questo contesto mutato è quindi indispensabile ripensare le organizzazioni e acquisire competenze completamente diverse rispetto al passato:

  • Per ottenere performance sono fondamentali team che creino contenuti dedicati ai singoli canali di diffusione. Se pensiamo allo scenario italiano questo può suonare “a bit scary”, ma che lo si voglia o no dobbiamo recuperare velocemente terreno prendendo esempio dai grandi colossi dei media e iniziare a pensare che a tendere dovremo prevedere dei content designer dedicati che realizzino shooting e video deidicati singolarmente a Snapchat, a Periscope (vedi come Burberry ha definito la nuova best practice della sfilata in diretta!), ad Instagram, a Pinterest oltre che naturalmente all’area editoriale corporate.
  • Altro tema è il ruolo dei social nelle vendite: a tendere questi diverranno tra i principali canali di acquisizione e di vendita (vedi Pinterest e i Buyable Pins). I nuovi social media manager saranno i nuovi store manager dei canali di vendita social: devono perciò possedere grandi competenze di prodotto, di vendita e di customer care.

 

Celebrity, no grazie, preferiamo blogger, vlogger e influencer

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Concludo il post con l’intervento della Founder di Rodial Maria Hatzistefanis, la quale ha sancito con chiarezza la morte delle celebrity di vecchio stampo come volti e veicoli del verbo dei brand.

Nell’era dei social e del digital come detto sopra l’autenticità è il prerequisito per qualsiasi strategia di comunicazione che voglia impattare con successo sul mercato. Oggi tutti i brand possono avere un grande impatto attraverso i social, ma questo impatto non può e non deve essere miope e avere come unico obiettivo la vendita diretta. Devono invece sfruttarli per accompagnare la vita dei propri follower ed enthusiast creando una relazione sempre più stretta attraverso contenuti di valore, condivisi (a livello valoriale) e soprattutto condivisibili (engaging!).

In questo scenario le celebrity che non si sono sapute rideclinare in versione social e autentica non sono più adatte. A loro sono subentrate con forza personaggi nati dal basso, che sono arrivati alla TV partendo da Instagram e dal proprio blog e passando per la creazione di una grande community di follower condividendo contenuti autentici in cui tutti si potessero immedesimare. Investire budget multimilionari in product placement ed eventi con personaggi poco reali nati e vissuti in contesti lontanissimi dal mercato non paga più. Meglio investire in una community di blogger, vlogger e instagrammer con un maggior potenziale di influenza.

Maria ha poi descritto il processo con cui vengono scelti: “Prima li conosciamo, stiamo assieme a loro e capiamo che tipi sono nella loro vita quotidiana. Se questa si rispecchia con il nostro brand e con la nostra filosofia li scegliamo e creiamo una relazione di valore e orientata al lungo termine con essi”.

Quanto ai video e all’uso di YouTube e degli altri canali ha rivelato come le produzioni a più basso budget stiano riscontrando successi maggiori in termini di engagement rispetto a quelle con budget più significativi. Questo conferma come l’autenticità sia più premiata dell’impatto cinematografico e come questa possa generare più facilmente connessione ed empatia con il target. Proprio a tal fine la Founder ha deciso di creare un proprio “genuine account” su Instagram, dove ogni giorno condivide immagini della sua vita di manager e i retroscena dell’azienda senza alcuno scopo commerciale.

Conclusioni

In conclusione, i focus e le lezioni di questa giornata spesa al Fashion Summit sono:

  • No way: tutte le aziende devono puntare a diventare brand e tutti i brand devono trasformarsi in media company
  • I contenuti sono lo strumento principe per generare connessioni di valore e orientate alla relazione di lungo termine con il proprio target di mercato. Visto il ruolo che giocano è necessario riadattare organizzazione, competenze, focus e quindi budget in questa direzione
  • I social sono l’ecosistema ideale in cui sviluppare le relazioni a più altro valore e in cui ottenere la propria autenticità. Ogni canale però richiede una certa tipologia di contenuti e un certo modo di comunicare al quale è necessario adattarsi per sfruttarli con successo
  • Nei social si vende, ma non deve essere lo scopo che guida gli investimenti in questo ambito. Le vendite sono lo step intermedio in un percorso che nasce con la rilevanza e la scoperta, passa per la relazione e l’engagement, per la conversione, per il supporto e per il legame emotivo che consente la fidelizzazione.

 

 

6 novembre 2015 Federico Betti