La “doppia via” di LeDoux: i due diversi modi di reagire agli stimoli del cervello

Iniziando a scrivere questo pezzo volto a spiegare cosa succede dentro noi, o meglio, dentro il nostro cervello, quando proviamo delle emozioni come paura, gioia, amore, rabbia, odio, etc., da un lato mi sento “invitato a nozze”, perché mi sembra di dover scrivere uno dei pezzi più belli del mondo, essendo così forte la passione e l’interesse che personalmente provo per questi argomenti. Dall’altro, mi sento allo stesso tempo in difficoltà, essendo un’ardua sfida da raccogliere quella di sintetizzare brevemente i grandi segreti del cervello umano. Ma come si sa, la passione è difficile da fermare, e allora proviamoci. La domanda cui cercheremo di rispondere è la seguente: abbiamo il controllo delle nostre emozioni, oppure sono le emozioni a controllarci?

Il neuroscienziato LeDoux e gli studi sull’Amigdala

Partiamo, come farebbe un bravo giornalista, dal titolo di questo pezzo: “La doppia via di LeDoux”. Ecco una seconda domanda: che cosa è “la doppia via”? O meglio ancora, potremmo iniziare da una terza domanda: chi è Joseph LeDoux? Joseph LeDoux è un neuroscienziato. Le neuroscienze rappresentano un ambito disciplinare piuttosto recente: il termine è stato coniato nel 1962 da un americano, Francis O. Schmitt, neurobiologo e professore al “Massachusetts Institute of Technology” (MIT). Egli nel 1962 dà inizio al “Programma di Ricerca delle Neuroscienze” (Neuroscience Research Program – NRP), in cui per la prima volta nella storia si gettano le basi scientifiche per lo studio del cervello in modo integrato, ovvero grazie al contributo multidisciplinare di matematici, fisici, chimici, biologi, ingegneri e psicologi, che conducono ricerca sul cervello, sui neuroni, sui nervi, e sul comportamento. il loro approccio è basato sui principi fisico-chimici e bio-chimici dei fenomeni mentali, come la memoria, l’apprendimento e la coscienza. Ancora oggi, all’interno del campus universitario del MIT, il “building 46”, in “Vassar Street” numero 43, è un dipartimento unico, ma al tempo stesso “trino”: ovvero formato da tre istituti di ricerca che lavorano all’unisono per svelare i segreti del cervello: 1) il “Brain and Cognitive Science Dpt.”; 2) il “Picower Institute of Learning and Memory”, e infine il “Mc Govern Institute for Brain Research”.

Ritorniamo al nostro titolo: chi è Joseph LeDoux? È un neuroscienziato: uno studioso dei meccanismi cerebrali. Purtroppo (e per fortuna), le neuroscienze rappresentano, come tante discipline scientifiche, un campo enorme di conoscenze e ambiti di applicazione. Così, Joseph ha concentrato gran parte della sua vita su un piccolo agglomerato di neuroni all’interno del cervello: l’amigdala. In greco antico, amigdala significa “mandorla”. I primi studiosi del cervello hanno utilizzato questo termine in quanto, da un punto di vista anatomico, la forma e la dimensione di questo centro cerebrale ricordano quelle di una mandorla. Per tantissimi anni LeDoux ha studiato questo “centro cerebrale” (il termine tecnico, che userebbe un medico, è “nucleo cerebrale”) nel cervello dei topi.

Perché gli studi sono partiti dai topi e solo in seguito si è passati al cervello umano? Questa domanda è lecita, perché un modo per iniziare a capire sempre di più del cervello in generale, è studiarlo non solo nell’uomo, ma anche negli animali. Dato che studiare il cervello nelle persone richiede tantissimi accorgimenti e precauzioni, la possibilità di studiare il cervello negli animali è stata fondamentale per la comprensione dei meccanismi cerebrali “in vivo”, mentre l’animale è ancora in vita. Anche questo tema meriterebbe di essere approfondito, ma ci porterebbe troppo lontano dal nostro obiettivo. Basta dire qui che grazie agli studi sul cervello degli animali, in particolare quello dei topi e dei primati (uno su tutti, il “macaco Rhesus”), la comprensione del cervello è stata approfondita notevolmente.

La doppia via: il cervello processa gli stimoli in due modi diversi

LeDoux ha scoperto che l’amigdala nel cervello del topo è coinvolta soprattutto quando il topo prova emozioni, come per esempio rabbia e paura. In particolare, una delle emozioni che LeDoux ha analizzato in modo ancora più approfondito è stata la paura. Da qui origina il titolo di una presentazione fatta per “Big Think”: “Neuroscience of Fear” (“Le neuroscienze della paura”) in cui spiega come questa emozione sia stata compresa in termini neuro-biologici. Sintetizzando al massimo, l’amigdala del topo media le risposte della paura. Giusto per fare un esempio: messo dinanzi ad un serpente, il topo percepisce un pericolo. Reagisce cercando di allontanarsi. Ma può anche rispondere mettendo in atto una reazione che in inglese viene detta “Freezing” (traducendo letteralmente: “congelandosi”). Si “congela” nel senso che il topo si immobilizza completamente. Anche questa risposta, tradotta in comportamento, è “dettata” da un gruppo di neuroni che si trovano nell’amigdala del suo cervello. Grazie agli studi di LeDoux, si è potuto comprendere e spiegare le reazioni comportamentali della paura, “dettate” dall’amigdala.

Ovviamente, l’amigdala è presente anche nel cervello umano. Anzi, ce ne sono due: una nell’emisfero destro, e una in quello sinistro, come mostra l’immagine qui sotto.

Curiosamente, l’amigdala nell’emisfero destro si attiva di più rispetto a quella presente nell’emisfero sinistro quando un essere umano prova una forte emozione, come per esempio una forte paura. Anche su questo fenomeno, definito come “lateralizzazione emisferica” delle emozioni (secondo cui l’emisfero destro, molto in generale, è particolarmente coinvolto e attivo quando la persona prova un’emozione, rispetto al sinistro), si potrebbe scrivere un altro pezzo, ma restiamo aderenti al nostro titolo.

La cosa ancora più interessante scoperta da LeDoux, è che l’amigdala fa parte di un circuito: è uno dei punti attraverso cui passa l’informazione processata dal cervello. Detto in altre parole, è una “stazione”, una “tappa” di un “percorso”, di una vera e propria “via”: finalmente arriviamo a spiegare il titolo del nostro pezzo! Come spiegato dall’immagine qui sotto, tratta dal sito del New York Times in cui è stata pubblicata una intervista a Joseph LeDoux nel 1996, anno in cui ha teorizzato la presenza della cosiddetta “doppia via” di elaborazione delle informazioni da parte del cervello.

Guardando l’immagine, è possibile notare che l’amigdala è coinvolta in due percorsi o vie. Il primo (evidenziato in rosso e che LeDoux ha etichettato come “Low Road” – via bassa) parte dagli stimoli esterni recepiti dagli organi di senso (occhi, orecchie, ecc.). Dagli organi di senso, che “traducono” sensazioni e percezioni in impulsi elettrici, l’informazione è successivamente convogliata alla prima “tappa” del percorso di elaborazione: i talami (nuclei cerebrali al centro del cervello, due “mini cervelli” nascosti nelle profondità del cervello!). Dai talami, altri impulsi elettrici ripartono per raggiungere finalmente l’amigdala (o meglio, le amigdale), per una successiva elaborazione delle informazioni. Da qui, nuovi impulsi elettrici impartiscono gli “ordini” e i “comandi” portati agli organi effettori (polmoni, cuore, muscoli, ecc.) per la pronta reazione dell’organismo in termini di comportamento e azione finalizzata a esprimere l’emozione.

Il secondo “percorso” (o “via”) in cui è coinvolta l’amigdala (nell’immagine sopra, evidenziato in blu e definito come “High Road” – via alta) parte sempre dagli stimoli esterni che vengono recepiti dagli organi di senso e tradotti in impulsi elettrici convogliati sempre alla prima “stazione” di elaborazione delle informazioni, rappresentata dai talami. Questa volta, però, dai talami nuovi impulsi elettrici sono inviati alla corteccia (anziché alle amigdale, come succedeva invece nella prima via). Dalla corteccia, nuovi impulsi elettrici vengono in seguito inviati alle amigdale, le quali elaborano e fanno ripartire nuovi impulsi verso gli organi effettori per una reazione dell’organismo.

Perché via “bassa” e via “alta”?

Per capire come mai LeDoux ha definito queste due vie con queste “etichette”, possiamo tentare di mostrare lo schema sopra rappresentato attraverso delle immagini vere e proprie tratte dal cervello umano. Prendendo come esempio il fenomeno della visione, per cui la luce (in particolare, in termini fisici, i fotoni) colpisce le retine presenti nei nostri occhi, le quali recepiscono così le informazioni dal mondo esterno e le convertono in impulsi elettrici attraverso cellule speciali (coni e bastoncelli) che sono convogliate nei nervi ottici. Qui sotto diamo un’immagine schematica di un cervello visto dall’alto (sezione orizzontale), e di come le informazioni dagli occhi raggiungono i talami attraverso i nervi ottici, per poi passare alla corteccia occipitale (nella parte posteriore del cranio) adibita a decodificare la visione (Primay visual cortex).

Qui sotto, forniamo un’immagine che cala “in vivo”, all’interno di un cervello ritratto mentre una persona è esposta a stimoli visivi, la trasmissione degli input visivi dagli occhi ai talami, attraverso i nervi cranici (evidenziati in verde) che si incrociano nel chiasma ottico prima di raggiungere i talami.

Qui sotto si fornisce un’immagine di come gli input visivi siano trasferiti dal talamo alla corteccia visiva (la seconda parte della “via alta”), attraverso le connessioni neurali.

Proviamo a rappresentare lo stesso fenomeno visto sopra riguardo la visione, questa volta con delle immagini che riprendono sempre il cervello umano, ma visto di lato (sezione sagittale del cervello).

Guardando l’immagine qui sopra, si può notare che la vista, attraverso gli occhi, rileva un pericolo (“danger” – magari la visione di una tigre), e trasmette l’informazione ai talami (Thalamus). A questo punto, l’informazione può prendere due strade: attraverso la “via bassa”, è inviata direttamente all’amigdala, grazie alla “scorciatoia” evidenziata in giallo; l’amigdala, a sua volta, manda le risposte che l’organismo mette in atto (per esempio “scappare via dalla tigre”). Questa via è detta bassa perché coinvolge le “parti basse” del cervello. Qui sotto mostriamo un’immagine del cervello visto dal davanti (sezione coronale) ripresa tramite fMRI (Risonanza magnetica funzionale) di una persona mentre prova paura.

Come si nota guardando l’immagine, le due amigdale che si attivano quando la persona prova paura sono localizzabili nelle parti basse del cervello.

In alternativa, le informazioni arrivate al talamo possono passare, attraverso la “via alta”, dal talamo alla corteccia visiva, rimanendo quindi nelle “parti alte” del cervello. Ora è possibile capire perché LeDoux abbia utilizzato questi termini.

Due vie, due diverse velocità di reazione agli stimoli

Consideriamo ora diverse caratteristiche delle due “vie” di elaborazione delle informazioni. Permettetemi di darvi delle piccole pillole di neuroscienze, per capire meglio come funzionano le due vie. Partiamo dalla via alta. Anzitutto dovete sapere che dal momento in cui uno stimolo esterno (per esempio, la famosa tigre) appare nel nostro campo visivo, al momento in cui noi diventiamo coscienti dello stimolo, passano all’incirca 300 millisecondi, praticamente un terzo di secondo. In altre parole, noi percepiamo il mondo con un ritardo costante di un terzo di secondo. Perché trascorrono 300 millisecondi? Questo è il tempo necessario per: recepire, nelle retine degli occhi (coni e bastoncelli) e decodificare gli stimoli luminosi, trasmettere poi impulsi attraverso il nervo ottico, elaborarli sommariamente a livello del talamo, e farli arrivare alla corteccia occipitale, per poi mandare impulsi alla corteccia temporale adibita alla “identificazione dello stimolo” (what) e stabilire dove esso è collocato nello spazio (where). Qui sotto diamo un’immagine che mostra come le informazioni visive, dopo essere state elaborate dalla corteccia occipitale visiva, vengano poi processate dalla corteccia temporale (il flusso di informazioni è chiamato “ventral visual stream”, proprio perché passa nella parte ventrale del cervello) che stabilisce l’identità dello stimolo; contemporaneamente, dalla corteccia visiva l’informazione viene processata anche dalla corteccia parietale (questo flusso viene invece chiamato “dorsal visual stream”, perché passa lungo il dorso del cervello), la quale elabora dove si trova lo stimolo nello spazio.

Tante sono ad oggi le ricerche neuroscientifiche che hanno dimostrato che la coscienza correla con l’attivazione delle aree corticali (le aree superficiali del cervello). Per diventare coscienti della famosa tigre, dal mondo esterno alla corteccia temporale che identifica la tigre occorrono 300 millisecondi, di media.

Se invece teniamo in considerazione solo la via “bassa”, che prende le informazioni dagli organi di senso (gli occhi che hanno rilevato la presenza della famosa tigre), li processa sommariamente a livello del talamo e poi manda l’informazione all’amigdala la quale controlla le reazioni (automatiche) in risposta allo stimolo, essa è più rapida (intorno ai 150 o 200 millisecondi), anche se meno precisa (LeDoux la definisce come “durty”, sporca) rispetto alla via “alta”, che essendo più lenta in termini di millisecondi (perché la corteccia, per elaborare tutte le informazioni disponibili richiede più tempo), è tuttavia più precisa e sistematica.

Perché la scoperta delle “due vie” è così importante?

Per diverse ragioni.

  1. La prima riguarda le emozioni. Sapere che le emozioni (in particolare paura, rabbia, stress, ansia, ecc.) coinvolgono in particolar modo l’amigdala, e che questa a sua volta fa parte di un circuito cerebrale che può fare a meno del coinvolgimento della corteccia (sede della consapevolezza), ci permette di comprendere come mai non sia così facile essere sempre consapevoli delle proprie emozioni. Gli psicologi lo sanno bene, ma le persone comuni spesso non sono a conoscenza di tutte queste sfaccettature.
  2. La seconda ragione riguarda la possibilità di spiegare strani fenomeni, come per esempio quando, camminando in una jungla e vedendo a terra un ramo che ha la sagoma di un serpente, prima reagiamo facendo uno scatto all’indietro, e dopo ci rendiamo conto che si tratta di un ramo e ci diciamo “ma vada via…!”. Ora possiamo comprendere coma mai gli stimoli minacciosi possano elicitare una reazione “istintiva”, emotiva, cioè priva di elaborazioni più raffinate e articolate e complesse, che richiedono non solo più tempo, ma anche più sforzo cognitivo.
  3. La terza ragione riguarda il fatto di comprendere che questi due sistemi, non solo seguono circuiti diversi, ma anche logiche differenti. Robert Zajonc, famoso psicologo per i suoi studi sperimentali (, tra gli altri ricordiamo gli studi sulla percezione subliminale) ha ipotizzato che questi due sistemi seguano criteri di elaborazione diversi: la via alta, con un ruolo cognitivo maggiore, segue criteri di “inferanda”, ovvero elabora le informazioni secondo logiche sistematiche e deduttive, mentre la via bassa segue criteri di “preferanda”, seguendo logiche legate alla piacevolezza, alla qualità edonica dello stimolo, a prescindere dalle valutazioni cognitive.

Tenendo conto di queste ultime considerazioni, siamo in grado di comprendere come possa capitare di provare una forte reazione emotiva, positiva o negativa, e come sia difficile controllarla o meno, a seconda della capacità della corteccia (la via “alta”) di interferire con (frenare) o meglio interagire con la via “bassa”. Se una persona ci fa arrabbiare tanto, in noi nasce la motivazione a colpire la persona fonte della nostra rabbia. Si tratta di una reazione automatica, istintiva, che sfrutta la presenza della via bassa, reminiscenza di quando noi eravamo organismi che lottavano in ambienti molto ostili per la nostra stessa sopravvivenza: le risposte automatiche emotive erano le uniche disponibili, e ci hanno fatto effettivamente sopravvivere (perlomeno ci hanno portato fin qui).

La corteccia cerebrale e l’evoluzione cognitiva dell’uomo

Solo in epoche più recenti, in termini evolutivi, è comparsa la “corteccia cerebrale”, sede delle funzioni cognitive più nobili, come la coscienza, il linguaggio verbale, il calcolo matematico, ecc. Se ci avete fatto caso, la (neo) corteccia (“neos” in greco antico vuol dire “nuovo”) avvolge completamente il cervello “interno”. Alcuni neuroscienziati la chiamano “neo-corteccia”, per distinguerla da quella più antica (il cervello più “interno”) che condividiamo con organismi meno evoluti, come per esempio i rettili.

È solo grazie all’intervento della capacità di frenare la nostra risposta, di controllarla, di integrarla con le risposte cognitive (della “neo-corteccia”) con quelle più emotive (via bassa, o “cervello primitivo”) che possiamo distinguerci dagli organismi meno evoluti con cui condividiamo la parte “primitiva” o “animale”.

Ma questa è già un’altra storia, che vi prometto di raccontare nel mio prossimo pezzo: la presenza di più cervelli all’interno del nostro cervello. E intanto, spero di farvi fare un altro pezzo di viaggio, di riuscire a coinvolgervi in quello che rappresenta il nostro destino, come uomini, scolpito all’ingresso dell’oracolo di Delfi, dove il mito racconta sia nata la fondazione della tradizione letteraria: “ΓΝΩΘΙ ΣΕΑΥΤΟΝ”, “conosci te stesso”. Il mito racconta due storie: secondo una, più recente, l’oracolo venne regalato a Zeus da altre divinità; secondo l’altra, più antica, occorreva affrontare il drago Pitone, che era guardiano dell’oracolo, di proprietà di una sola divinità, Gea. Solo attraverso la lotta con il guardiano si poteva entrare in possesso dell’oracolo, e conoscere la verità. Se davvero sappiamo di avere una parte animale dentro di noi, non ci resta che conoscerla, per poterla controllare nel miglior modo possibile integrandola con ciò che ci siamo (duramente) conquistati con l’evoluzione.

Termino questo pezzo con un’ultima immagine, qui sotto, che ritrae il dio Apollo con la lira, dio del sole e della musica e di tutte le arti, ovviamente, anche della scienza: simbolo della luce che squarcia l’oscurità.

13 febbraio 2018 Maurizio Mauri

Potrebbe interessarti anche:

TAG: neuromarketing