Anno 2019, capitolo II: L’incontro

Le ultime luci del continente a poco a poco sfumarono, e raggiunto il meridiano 60° W si sprofondò nella notte; le spettrali tenebre si affacciavano dai finestrini, facendo sembrare ancor più spaventosamente fattuali l’altitudine di 21.000 piedi e l’algida temperatura dei -60 °C. C’era però uno stellato mirabile, che rabboniva il cuore, e l’anima; i passeggeri della navata di destra erano inoltre confortati dal chiarore e dalla magnificenza della Luna; in quella notte, era una Luna gibbosa calante. (intermezzo musicale)

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(riprendere lettura) Uno dei passeggeri la osservava avvalendosi di un potente binoculare della Leica, erano così visibili dettagli che a occhio nudo sarebbe stato impossibile scrutare, come alcune gradazioni di verde, blu e viola che convivevano nei mari lunari, specialmente nel Mare Imbrium e nell’Oceanus Procellarum; erano inoltre molto ben visibili i crateri, e la catena montuosa dei Montes Apenninus visibile al confine sud-est del Mare Imbrium, oltre la quale è situata la Terra Nivium. John Smith poteva solo intravedere tale meraviglia, la cattiva sorte lo aveva relegato nella navata di sinistra, e con seduto a fianco un compagno di viaggio che ingurgitava cibo e bevande senza tregua alcuna. Gli occhi avidi di Fred Livingstone erano depositati sul piatto, il suo obiettivo al momento era quello, e non certo qualcosa di poetico come il guatare il ciel. Acquisita questa riflessione, e messosi l’animo in pace di non poter godere dello spettacolo là fuori per l’impossibilità di guadagnare la prima fila, il professor Smith riaprì il saggio sul disagio giovanile scritto da Umberto Galimberti.
Questa nuova avventura, questo viaggio, stava mutando un poco i sentimenti, e l’indole, di John. D’un tratto si sentiva più disponibile, verso gli altri, e verso i giovani, soprattutto i suoi giovani, i suoi alunni della facoltà di Psicologia dei Processi Cognitivi della Boston University. Forse le parole del suo amico di vecchia data, di Milano, Ludovico Macchi, sulla relazione, sull’esperienza, sull’ascolto delle persone, potevano aver costituito il motore generatore di questo mutamento interiore, e forse, una volta esperiti, e acquisiti, i fondamenti che le persone preparate di un laboratorio di ricerca l’indomani avrebbero trasmessigli, il professore avrebbe voluto infonderli poi a sua volta a degli adolescenti che in fondo, dietro alla loro apparente scorza dura e strafottenza, palesavano solamente il bisogno di essere ascoltati, di essere amati, e di imparare come si fa, come si fa a stare al mondo, certo una cosa non così semplice, soprattutto visto che cos’è il presente.
Certamente non era facile, prendere per mano dei ragazzi e instradarli correttamente, per lui che non era mai stato padre. Dei ventenni, certo, sono freschi di studi, sono spigliati e curiosi magari, alcuni hanno già vissuto la vita nel senso che hanno dovuto conoscere già alcuni aspetti che permettono di capire quanto sia dura, ma tutti, dovevano ancora spiccare il volo, e non avevano alba di come era possibile farlo probabilmente.
Era difficile, tanto più che il professore stesso, non era ancora sicuro di aver spiegato davvero le ali nella propria di vita, verosimilmente per una insicurezza innata che va a formarsi nelle grandi menti, le quali aspirano sempre alla perfezione; ma perfezione che non esiste in realtà. È soggettiva, o ancor meglio, non è auspicabile una perfezione matematica, per tutto ciò che non è solamente scienza, e per tutto ciò che non è prettamente contabilità aritmetica (ma anche parlando di danaro, già se entriamo nel campo della finanza, la matematica è un qualcosa di aleatorio, più o meno favorevolmente); volendo esemplificare, qualche piccola sbavatura rende una cosa degna dell’essere stata creata da una figura bella ma imperfetta, come l’uomo. E così la vita, è più bella, e umana, se imperfetta: quale scrittore, e quale sceneggiatore, scriverebbero mai di una vita monotona quanto la perfezione? Una vita che stia nei ranghi certo è sicura, presenta meno rischi, ed è indice di maggiore maturità forse, e dell’essere più responsabili. Ma questa era la vita che John aveva sempre rifuggito, lui che si sentiva uno spirito libero e imperituro, che avrebbe voluto emanciparsi persino dalla costrizione della morte. Il professore rimuginava spesso su questi principi della propria morale, quasi per giustificarli, e giustificarsi con sé stesso. Certo è che a 53 anni si ritrovava sempre più isolato, poche amicizie, e le sue amanti con le quali passava solamente pochi momenti fugaci, un pomeriggio, una serata, una giornata, ma non certo una vita. Ogni medaglia ha il suo rovescio forse… Ma poteva accettarlo, probabilmente solamente chi è un po’ più silvano, può esistere abbastanza liberamente senza troppi patemi, vincoli, restrizioni, obblighi, e invece godersi un po’ la vita… Il prezzo da pagare, poi, c’è sempre.

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“Come sei pensieroso, il viaggio non è di tuo gradimento?”
“Ah, scusami mi sono eclissato per un po’, mi capita di frequente ultimamente… No no, al contrario Freddy! È davvero speciale volare su questi gioielli di ingegneria, il comfort è massimo. E la tua compagnia poi, è ottima vecchio mio! Sono felice che tu abbia deciso di prendere parte a questa avventura.”
In quell’istante, mentre sfoggiava un sorriso di Duchenne che fosse il più naturale possibile, John ripensò al prezzo che aveva pagato per due persone in business class andata e ritorno per Milano con la sua American Express Gold, ovvero quasi 8.000 dollari. Gli pianse un po’ il cuore, ma fu un pensiero che ricacciò subito nei meandri della mente, erano soldi ben spesi, sia per il fine, sia per il comfort che è appannaggio di chi viaggia in business class della Lufthansa e in particolare a bordo di un Boeing 747-400, l’aereo di linea più presente nei cieli, e di grande bellezza estetica. Il professore si guardava in giro, ora in basso per osservare come le sue braccia fossero posate a mo’ di dio egizio Anubi sugli ampi braccioli – di cui quello centrale dotato di una doviziosa serie di pulsanti per regolare il sedile/letto -, ora innanzi a sé il monitor di intrattenimento che forniva la possibilità di vedere film, serie tv, informazioni di volo, e quant’altro ma era presto per concentrarsi sulla sua visione, in quel momento John era un bimbo entusiasta che guardava il suo giocattolo da tutte le angolazioni possibili. (intermezzo musicale)

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(riprendere lettura) Il servizio a bordo poi era impeccabile, il personale era cordiale e sollecito nel rispondere alle richieste.
Il professore si decise a cenare, ordinò perlopiù degli assaggi in tanti piccoli piatti: un confit di salmerino alpino; tagliata di manzo in crosta d’erbe con insalata di frutti di bosco; insalata di alghe wakame abbinata ad anguria, ravanello, arancia, e salsa vinaigrette allo zenzero; come accompagnamento, caviale, lime, cipolla a fettine, pancarré tostato, bianchi d’uovo, formaggio a cubetti Parmigiano Reggiano DOP di Montagna stagionato 40 mesi, e panna acida; da bere, un calice di Bollinger Cuvée 2004.
John quindi alzò lo sportellino del bracciolo centrale, sulla sua sinistra, e fece uscire il tavolino in metallo dopodiché si mise in attesa; che non durò a lungo: cinque minuti dopo arrivò infatti la hostess e depose sul tavolino del professore il desinare. L’aspetto era ottimo, avevano usato una certa fantasia e raffinatezza nell’impiattare le portate.

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La cena lo soddisfò, tanto che gli parve quasi di essere tornato ai tempi dei banchetti del Re Sole; la haute cuisine lo affascinava. Smith era, come detto, altresì compiaciuto del mezzo su cui stava attraversando l’Atlantico, lo ritenne un oggetto d’arte probabilmente anche perché riusciva a coniugare molto bene un bel design esterno risalente al 1966 ad opera di Joe Sutter, a degli interni moderni molto confortevoli ma al contempo essenziali, senza troppi fronzoli, ricavati efficacemente scolpendo forme e ingombri sfruttando gli spazi al meglio, un po’ come avviene sulle barche. «Quanto lavoro c’è dietro» pensò il nostro eroe, quanto tempo avevano impiegato altre persone per realizzare il mezzo su cui stava seduto lui ora. Sì, era giusto pensarci, rifletterci un momento. Una persona non superficiale, non si ferma quindi alla buccia, ma assapora il gusto fino in fondo, e apprezza. E chi apprezza veramente, apprezza ogni volta, anche se l’esperienza avvenisse tutti i giorni. Anzi probabilmente più l’esperienza è buona, e più la si vorrebbe ripetere, dissociandosi completamente dalla frenesia della distopica e antitetica (rispetto a pochi fortunati, ancora desti) società moderna (e futura, purtroppo) completamente succube del cambiare continuamente, giorno dopo giorno, per un completo svuotamento di identità oggi dove parallelamente c’è un completo svuotamento della cultura e delle tradizioni, e vige il concetto dell’usa (male) e getta (dove capita) oggetti (ma in certi casi anche animali, o addirittura persone) che probabilmente, la buona parte, sono detestabili (sto focalizzando ora il discorso sugli oggetti solamente) perché risultato di un imbarbarimento di stile, di gusti, di design (in pratica non sono più considerabili di design), e a livello di processo produttivo e materie prime; sono oggetti detestabili in quanto non rispettano più i requisiti di una appartenenza al concetto di Human, – quindi per nessuna delle sue sfere filosofiche -, quest’ultimo la cui nascita può essere fatta risalire all’antropocentrismo dell’Umanesimo petrarchiano.
Se invece c’era da apprezzare, John sapeva apprezzare, e se una cosa gli piaceva molto, voleva ripeterne l’esperienza, ma in quel momento lo rattristarono due fatti: il primo era che, se l’esperienza presupponeva la presenza di due attori, ovvero il fruitore dell’esperienza e l’entità che veniva esperita, non era così scontato che alla volontà dell’esperiente potesse corrispondere ogni volta la disponibilità materiale dell’entità da esperire nuovamente, e questa incognita non può essere scongiurata nemmeno sfilando dal portafogli un assegno in bianco, perlomeno non se si è i soli disposti a farlo; il secondo fatto, che in buona parte determinava il primo, era che tutte le cose del mondo, tutti i fatti del mondo, tutte le componenti della vita, costituissero un unico grande mosaico soggetto ad una sorta di forza di gravità, a un delicato equilibrio, per cui mancando anche una sola tessera – o cercando di spostarne una soltanto -, del mosaico, si stravolgeva tutta la composizione in quanto le altre tessere sarebbero scivolate giù e franate in malo modo sulle sottostanti. Ecco che al design, alla sapienza artigianale, alla qualità produttiva e dei materiali che caratterizzavano la realizzazione degli oggetti di un tempo (ovvero, a livello concettuale e metaforicamente parlando, un mosaico perfetto, con tutte le tessere al loro posto) non si potevano certo paragonare gli articoli (nemmeno oggetti ormai, sono articoli) della contemporaneità, quest’ultimi impallidivano al confronto. Design, andato (casuale, senza equilibri, senza riferimenti storico/culturali, di sovente ridotto ad un minimalismo non ben calibrato, che, ad un occhio esperto, esplicita chiaramente un mero tentativo di camuffare alla bell’e meglio una sterilità creativa, una mancanza di cultura, e una mancanza di padronanza del mestiere); materiali, andati (a prescindere dai perché, opinabili, che ne hanno motivato le scelte, oggi siamo invasi da materiali, da materie prime, scadenti, ad esempio la plastica, che ci ha invasi con la sua ordinarietà, ci ha relegati ad una metaforica vita di plastica, ovvero finta e infima – pensate ai fiori di plastica, emblematico-, la plastica termina, la plastica uccide anche l’ultimo spiraglio di vita soffocandolo con la propria mediocrità, se escludiamo certi esempi di plastiche di design del modernariato come fu ad esempio la Kartell degli anni 50’, ’60 e ’70, la Artemide, la Braun, la Brionvega, la Alessi sempre di quegli anni, o certi innesti nell’automotive fino agli anni ’80 compresi; e, prima degli anni ’50, il mondo della bakelite che vestì gli oggetti Art Déco. (intermezzo musicale)

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(riprendere lettura) Allora sì, poteva avere un senso, ma oggi… La plastica, se spogliata di quel design di forte identità che poteva conferirle valore, non ha più nessun fascino, e tanto peggio se viene camuffata e fatta assomigliare al metallo, o al vetro, o alla pelle, o alla carta. La plastica è oggi un cancro con cui dobbiamo convivere ogni giorno, che tocchiamo con mano ogni giorno. Persino le attuali banconote, partendo dal Dollaro australiano nel 1988 e arrivando ad oggi con la Sterlina britannica, hanno subito un cambio generazionale verso la plastica per scongiurarne il deterioramento, e abbattere pertanto i costi di produzione e di stampa; pensiamo però a quale sensazione sgradevole si possa avere tenendo in mano una banconota di plastica… Una bruttura, davvero poco elegante. Probabilmente la stessa sensazione sgradevole di tenere in mano una tessera bancomat, o una carta di credito: oltre che sgradevole, è finzione, se consideriamo che tanto tempo fa si partiva dall’oro, o dall’argento, come moneta – detta moneta-merce, susseguente al baratto e alla merce intermediaria -; arrivò poi la bella cartamoneta, moneta-segno, passo obbligato per far fronte alla scomodità di portare in giro per lunghi tragitti le monete-merce, ai tempi di una diffusione del commercio a lunga distanza. L’oro, l’argento, venivano pertanto depositati presso gli orefici, e in seguito presso le banche, che rilasciavano delle ricevute attestanti il deposito, successivamente divenute banconote, utilizzabili come mezzo di pagamento anche in luoghi molto remoti da dove si tenevano in deposito le monete-merce. La cartamoneta, di vera carta realizzata da rinomate cartiere, era pagabile a vista al portatore, cioè convertibile in oro o in argento, ovunque egli si trovasse in quel momento e seduta stante, hic et nunc, e questa pratica è stata possibile almeno fino alla prima guerra mondiale, il dollaro statunitense fino al 1971; oggi invece, le misere tessere di plastica, viscide, che teniamo in mano e usiamo come “moneta” di scambio, non hanno alcun valore se non quello creato, generato dal nulla, telematicamente dal computer di una banca – e poi annullato allo stesso modo; oggi, la gran parte del “denaro” è telematica e creata a seguito della richiesta del credito da parte di privati e aziende, dopodiché, chiuso il circolo, ovvero corrisposto il debito agli istituti di credito, il valore virtuale che era stato aperto, creato, viene annullato, eliminato semplicemente pigiando un tasto da tastiera, e rimangono come introitati invece gli interessi da parte dell’ente creditore -, quindi non fisicamente tangibile in origine come materia preziosa -ma nemmeno a livello contante, quest’ultimo il quale oggi circola ma essendo stampate molte meno banconote di una volta non appartiene realmente a nessuno, è una sorta di bene a noleggio il cui destino non è di stare infine nelle mani dei cittadini, bensì nei caveau degli istituti a fronte e in cambio di valori telematici che non significano nulla e che presto o tardi scoppieranno-, per cui non sono certamente pagabili al portatore. Ciò costituisce un altro, ennesimo segnale di una perdita generazionale di ogni memoria storica. È un nuovo re Mida quello odierno, in antitesi con l’originale, che qualsiasi cosa tocchi diventa plastica, la plastica spogliata di un design di qualità è un fluido che ha invaso il mondo, una sorta di “Blob”, il fluido di polimeri che uccide. Oggi qualsiasi cosa a cui pensiamo, può, è, e sarà, un polimero, plastica. La plastica, costa poco, e può sostituire materiali costosi, praticamente tutti i materiali. La carta, invece, specie se di un certo tipo, costa, il legno, quello vero, costa, l’acciaio, costa, il vetro, costa, la porcellana, costa, la ceramica, costa, la gomma di un certo tipo, costa, il cotone, costa, l’argento, l’oro, il platino, il rame, il palladio, ma anche il calcestruzzo, il gesso, le verniciature, le laccature, l’inchiostro per la stampa offset, il marmo, il granito, la pelle e il cuoio, costano. Ma la plastica è solamente uno dei materiali scadenti. Pensiamo anche al truciolare dei mobili dei grandi magazzini. Pensiamo anche alla segatura pressata. Pensiamo anche al cartone pressato. Pensiamo anche al tessuto sintetico. Pensiamo agli scarti petroliferi); artigianalità, andata (oggi, chi sa più intagliare il legno? Oggi, chi conosce più l’arte dello sbalzo e cesello? Oggi, chi conosce più l’arte calcografica a puntasecca e a bulino? Oggi, chi conosce più l’arte del ricamo e del cucito? Oggi, chi saprebbe disegnare a mano libera, per realizzare un bozzetto grafico su carta Fabriano, ovvero, oggi, chi è più un vero grafico e calligrafo? Oggi, chi conosce più l’arte della liuteria? Oggi, chi saprebbe impagliare la seduta di una Thonet? Oggi, chi saprebbe rilegare un libro? Oggi, chi conosce più l’arte dei maestri vetrai? (video)

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(riprendere lettura) Oggi, chi conosce più l’arte della fotografia di ricerca su pellicola e lo sviluppo e stampa in camera oscura? Oggi, chi conosce più l’arte della composizione musicale? Questi miei quesiti così cadenzati, così insistenti, così impietosi, avocano a sé metaforicamente i rintocchi di un orologio a pendolo, che, suonate le otto della sera, lascia feralmente avanzar le tenebre da una finestra lasciata fatalmente socchiusa); personalità, andata (che personalità può avere un oggetto che non proviene da una idea solida, da un progetto sensato, e che è orfano di un bravo designer, e fatto con materiali dozzinali seguendo un processo produttivo di bassa lega prettamente automatizzato? Di un oggetto, anzi, di un articolo del genere, se ne possono produrre a milioni, e che valore può avere in definitiva un oggetto cotanto brutto in ogni suo aspetto e significato, e che oltretutto possiedono tutti? Nessuno, nonostante il prezzo di vendita al dettaglio possa essere anche elevato. Solamente le persone di elevata cultura sanno comprare cose veramente belle e al giusto prezzo, sicuri di fare un buon investimento per il futuro, se vogliamo altresì tornare sul tema dei beni rifugio); usabilità, discutibile («questo è chiaramente uno dei punti cardine» pensò il professore, e su cui era stata incentrata una interessante parte della conversazione dapprima con Ludovico Macchi, e poi con Fred Livingstone. Un aspetto preoccupante oggi è sicuramente un’imposizione del prodotto, siffatto, pensato in tal modo, usabile in questa maniera, prendere o lasciare. Trattasi di un diktat dall’alto, dal potere, dal potere del marchio produttore, verso il basso, il consumatore, quest’ultimo divenuto un mero e sottomesso strumento di profitto. È il risultato di un trentennio di cosciente miopia, e di offesa all’intelligenza, nei confronti della persona comune, declassata a consumatore non tanto tramite una esplicita comunicazione mediatica, quanto una lenta subdola rotta di avvicinamento a un adeguamento pedissequo verso una indotta regressione e perdita culturale generazionale. Questa incrinatura nei rapporti si delinea a partire dalla fine degli anni ’80 negli USA che, successivamente alla fine della Guerra Fredda, furono colpiti da una crisi economica derivante dal ridimensionamento dei programmi militari, i quali tenevano in piedi un’industria titanica che dava lavoro a milioni di persone in tutti i cinquanta stati della federazione. Artefice della fine della Guerra Fredda e del collasso dell’Unione Sovietica, avvenuto nel 1991, fu Ronald Reagan, il cui mandato finì due anni prima, nel 1989. (intermezzo musicale)

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(riprendere lettura) Questo progressivo dietrofront sugli armamenti creò evidentemente una voragine nell’economia americana, anche se non fu l’unica causa di questa recessione: fra le altre, la bolla finanziaria che scoppiò in relazione ai molti prestiti concessi negli anni ’80, ove l’economia viaggiava bene e permetteva un facile accesso al credito, prestiti che però successivamente alla crisi del mercato del lavoro che culminò con il 1991, divennero per una buona parte dei crediti prescritti, ovvero non recuperabili. Negli anni ’80 e ’90 inoltre la società americana compì una transizione dall’era industriale a quella dei servizi, che finì per costituire una sorta di terremoto per gli imprenditori del settore secondario, e per i lavoratori, sempre più licenziamenti, e stipendi in decrescita, questa tendenza permase anche con il passaggio di testimone da George Bush senior a Bill Clinton nel 1993, che vide parallelamente una ripresa dei mercati e del PNL, prodotto nazionale lordo. In Italia una crisi economica scoppiò nel 1992 e segnali tangibili si ebbero con il prelievo forzoso del 6 per mille dai conti correnti delle banche italiane operato da Giuliano Amato nella notte tra il 10 e l’11 luglio. Un altro segno cristallino fu la scarsa stabilità della Lira, frutto di due decenni di inflazione per calmierare i toni della protesta sociale innescata con il ’68, cominciato nel ’66 in Italia, inflazione che portò il debito pubblico in mano agli investitori stranieri, quest’ultimi i quali ritirano la fiducia nel ’92. Tale mazzata fu esacerbata dalla speculazione finanziaria perpetrata dal finanziere George Soros avvenuta quel “mercoledì nero” del 16 settembre ‘92. Amato fu costretto a intervenire nuovamente, svalutando la Lira del 30% e portandola fuori dallo SME, acronimo di Sistema Monetario Europeo. Questa azione del Presidente del Consiglio salvò l’Italia dal baratro finanziario, tant’è che se gli italiani oggi paragonano la crisi del ’92 con la Recessione del 2009, la prima non è quasi degna di nota. In concomitanza con questi fatti del ‘92, Tangentopoli e la bufera delle inchieste giudiziarie di Mani Pulite che provocò un vero e proprio terremoto nella politica – Bobo Craxi arrivò poi a definirlo un “colpo di stato” – e nell’imprenditoria italiane, questa vicenda ebbe chiaramente ripercussioni sull’economia già fiaccata dai problemi di cui sopra.

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Le economie, i mercati, degli USA e dell’Italia, hanno avuto una forte interdipendenza fin dai primi del Novecento all’epoca dell’apice dell’emigrazione italiana negli States, che superò l’emigrazione tedesca e quella irlandese. Quando un’economia prospera, non si bada a spese, e ne consegue che sul mercato vengano immessi precipuamente prodotti di alta qualità, i quali quest’ultimi possono fregiarsi di essere stati progettati, disegnati, realizzati dal fior fiore della forza lavoro, i migliori professionisti, i più specializzati, grazie a budget aziendali di tutto rispetto che certo non lesinano nemmeno sui materiali di produzione. Tutto ciò a prescindere dall’osservanza o meno di un aspetto Human, che all’epoca probabilmente non si era ancora palesato come parametro ma era implicito, perlomeno era percepibile cristallinamente nella magnificenza degli oggetti prodotti che poteva essere considerata un atto di devozione verso il pubblico. Lo splendore di oggetti artigianali di forte identità, dai materiali pregiati, faceva passare in secondo piano aspetti come eventuali funzionalità imperfette che potevano capitare, ciò diventava veramente un dettaglio su cui si poteva tranquillamente sorvolare, o addirittura poteva divenire quasi un elemento caratterizzante che faceva salire l’interesse per quel determinato oggetto. C’era stile, c’era eleganza, c’era tradizione, c’era cultura, gli oggetti provenivano dalla cultura e richiamavano cultura su di essi da parte del pubblico.
Quando invece un ingranaggio non è più ben oleato e per di più vi si deposita dello sporco, questo provoca un arresto a catena degli altri componenti, un bilanciere si blocca, un’economia va in recessione, e non è più tempo di investire grandi budget da parte delle aziende per immettere sul mercato prodotti di un tenore elevato com’era prima, oggetti che oggi mediamente apparterrebbero alla categoria lusso ma che all’epoca erano appannaggio di molti grazie ad una calmierazione dei prezzi di vendita – ottimo rapporto qualità/prezzo – in relazione al potere di acquisto in una economia che funzionava bene. In tempi di recessione no, questo discorso non era più possibile in definitiva, a lato pratico, sebbene gli intenti potessero rimanere buoni. Quindi, una divaricazione del target, mercato diviso tra lusso e prodotti sempre più appartenenti ad una fascia qualitativa medio/bassa per poter contenere i costi di produzione, e a fronte comunque prezzi inflazionati, quindi un oggettivo tracollo del rapporto qualità/prezzo a prescindere da che potere di acquisto. Il taglio del budget, il taglio della forza lavoro, il taglio degli stipendi/onorari che allontanava i professionisti, il taglio della qualità nella progettazione, disegno e processo di produzione, il taglio della qualità dei materiali di produzione, il taglio della funzionalità reale del prodotto – ossia le funzioni essenziali di cui ha veramente bisogno la persona, sostituite invece da una miriade di futilità tecnologiche stucchevoli -, quest’ultima la quale evidentemente risentiva fortemente di queste pecche, di queste lacune. Meno pregio, meno bellezza, meno attrattiva, meno durevolezza, e meno usabilità, probabilmente, anzi sicuramente, anche per tutti questi aspetti. Poi, solamente chi è desto, e ha una certa età o comunque, se giovane, una certa cultura per la storia e per gli oggetti del passato, può notare questa caduta, questo scadimento di qualità e bellezza. Ma chi è semplicemente figlio del proprio tempo, e non è curioso di sapere che cosa c’era prima, segue solamente e pedissequamente la linea di mezzeria della strada su cui è, senza voltarsi indietro e non curandosi di cosa incontrerà ma anzi accettandolo di buon grado trangugiandolo beato nella propria ignoranza. Soprattutto la generation Z è fortemente a rischio di essere fagocitata nel concetto che ho appena espresso, in quanto sempre più manca la volontà di trasferire valore ad una generazione con la quale è praticamente impossibile comunicare data la sua intangibilità, virtualità, distacco, apatia, autismo, ormai genetici perché da essi assunti, recepiti, da tale currente rerum pandemico dei relativi coetanei.
Come detto, quando una cosa va male, porta indietro anche le altre, e il collasso è totale, si verifica un allineamento negativo delle parti, ecco che se un’economia va male, anche il mercato va male e propone cose mediocri prodotte da persone mediocri, per un pubblico che di riflesso è anch’esso divenuto mediocre, innescando così poi un circolo vizioso, un cane che si morde la coda, un’impasse dalla quale è difficile uscire); scopo che ne giustifichi l’esistenza, non sempre condivisibile (oggi si prova nostalgia per degli oggetti del passato, alcuni dei quali magari vissuti personalmente, erano l’estensione di usi, costumi, contesto storico/sociale/politico, tradizione, cultura e influenze culturali/popolari/artistiche, mestieri, professioni. Questi oggetti avevano forte identità e perfetta collocazione, avevano fascino e utilità, tant’è vero che il futuro, che non aspetta nessuno, ed è di fatto una parabola discendente d’imbarbarimento, ha reso la dismissione di tali oggetti un trauma per alcune persone ancora deste e sensibili, i nostalgici che trovano ancora bello e utile poter telefonare dalla cabina telefonica del bar con davanti la guida telefonica cartacea, il poter comprare un rullino pellicola 35mm per la propria reflex della Topcon, il poter battere una lettera a macchina con una Olivetti Lettera 22, oppure scriverla a mano in corsivo con pennino inchiostro e calamaio e sigillandola poi a cera timbro, il poter entrare in bottega da un falegname per farsi fare una credenza in piuma di mogano ottone e marmo nero, oppure andare in bottega da un vasaio e comprare un servizio di piatti in terracotta smaltata, il poter fare un pic-nic all’aperto e ascoltare un po’ di musica con il mangiadischi Phono Boy Grundig, il poter viaggiare con un necessaire completo in cuoio come quelli degli anni ‘50, il poter fare una partita a biliardo al bar, il poter sentire un 45 giri al jukebox inserendo la monetina, (intermezzo musicale).

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(riprendere lettura) il poter fare girare un mappamondo in cartapesta per scoprire nuove città, nuovi fiumi, nuovi territori ameni, il potersi distendere a fine giornata su di una chaise longue tappezzata in raso, il poter bussare con il batacchio ad un portone di casa, il potersi lavare e radere la mattina su di un lavabo in ferro battuto con brocca e specchio, il poter cucire un vestito con una macchina da cucire a pedale della Singer, il poter filmare con una cinepresa della Beaulieu a pellicola super 8 il proprio bimbo che gioca con i Lego, il poter lavare il bucato a mano con il vero sapone di Marsiglia su di un lavatoio in pietra, il poter illuminare il soggiorno con un lume a petrolio, il poter trovare la mattina fuori dell’uscio di casa una bottiglia di vetro del latte e un quotidiano, il potersi recare in bottega del pastificio e acquistare un cabaret di tortellini freschi fatti a mano, oppure entrare in drogheria e comprare del baccalà avvolto nella carta oleata e del bovis nel suo tipico vasetto in ceramica verniciato di bianco, il poter andare a lavoro in Velosolex, il potersi versare il vero tè del samovar, il poter registrare un concerto di pianoforte all’aperto con un registratore a bobine della Geloso. Quante belle cose, bei riti, di un tempo, oggi non possiamo più assaporare, tutta questa tecnologia odierna fa e pensa per noi, sa, prima e più di noi, è una triste questione che ci rende sterili, inoperosi, fisicamente e mentalmente, e ci porta più o meno inconsciamente all’apatia, alla depressione, e all’autismo. Ci hanno convinto con l’inganno del fatto che non avevamo più bisogno dei riti piacevoli di un tempo, in nome di un progresso che è solo una scusa per indurre la gente a pensare che nuovo e più tecnologico, più automatizzato, sia meglio, a prescindere da tutti gli altri aspetti, che possono essere quindi sacrificati, tra cui quello estetico e quello romantico. Oggi si sta verificando la continua metamorfosi di un mostro che assume un aspetto sempre più osceno e infausto, sta divenendo progressivamente autosufficiente, tanto da far risultare l’utilizzatore umano quasi un intruso, un incomodo; fra poco tempo questi mostri umanoidi, agiranno in totale autonomia arbitrale, sarà cioè completata quella inversione delle gerarchie, sarà giunto un futuro distopico in cui le macchine prevarranno sull’uomo e lo elideranno; ma d’altronde più di qualche avvisaglia la si è già avuta. La sensazione, che è più di una semplice sensazione, è che nella modernità manchino tante cose belle di una volta, che potremmo, se veramente volessimo, se veramente avessimo voluto, avere tutt’oggi, ma così non è stato purtroppo, perlomeno per molti, la grande maggioranza della popolazione, che vivono imprigionati in una condizione di catatonia e di sudditanza verso il mostro che avanza. Se da un lato, mancano oggi i begli oggetti di una volta, i bei riti di un tempo che, chi è ancora desto, vorrebbe riassaporare, dal lato opposto siamo invasi da articoli delle cui funzioni non abbiamo bisogno alcuno, se non il bisogno che ci viene somministrato a forza come sotto ipnosi, sono oggetti che non hanno ragion d’essere perché in antitesi con il concetto dell’Essere Umani, sono oggetti Misantropomorfi, sono intelligenze artificiali, sono umanoidi interconnessi il cui scopo finale sarà l’estinzione, la cancellazione, del genere umano).

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Pensando a certi temi, alla successione dei fatti che ci hanno portati alla situazione odierna, e pensando ad un futuro così amaro, abbastanza prossimo purtroppo, il professore provava una sensazione tra angoscia, tristezza e sconforto. Ma su certi concetti, è bene riflettere ogni giorno, come fossero un monito, un manifesto per punti che è lì, scritto a mano sul muro, un documento storico a ricordarci qual è la via del bene e qual è invece la via del male da non prendere ma che d’altronde l’umanità ha già intrapreso, o per meglio dire, v’è rovinata dentro. Che degrado culturale ha portato il presente; quanta vita precipitata in una schiavitù, che ha posto l’uomo, non più popolo ma popolino, suddito relegato ai bassifondi, al sottosuolo, agli inferi.

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D’altro canto, se oggi la visione concettuale di progetto e il fine di un prodotto, è solida, ed esso è ancora realizzato secondo i crismi di una produzione artigianale impiegando altresì materiali di qualità, e progettato da designer degni di questo nome (parliamo quindi di una eccezione, una rarità) che oltre al design estetico ne sappiano coniugare un design funzionale/tecnologico sensato – intendendo quindi un oggetto che onori la cultura dell’Essere Umani -, i costi di produzione, e i prezzi di vendita al pubblico, verosimilmente salgono alle stelle.

Scarseggiano gli artigiani veri e i designer veri (richiesti quasi esclusivamente soltanto per il settore lusso ormai), non ci sono più le idee giuste, e mancano sufficienti investimenti; anche le materie prime, scarseggiano, o comunque non sono infinite. Probabilmente, infine, siamo troppi, questo pianeta è sovraffollato di persone; sembra un’illazione catastrofista eppure i dati non mentono e dicono che dal 2011 a oggi ci sono 700.000.000 di persone in più al mondo, che equivale al totale della popolazione europea attuale. Pensiamo solamente a questo dato: in 8 anni, sul pianeta, si è aggiunto in pratica un altro continente demograficamente equivalente all’Europa. Come le sfamiamo tutte queste bocche? Questo certamente dovrebbe essere il primo quesito: come le facciamo sopravvivere queste creature, le quali hanno il diritto, una volta venute al mondo, di avere una vita dignitosa come tutti? (intermezzo musicale)

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(riprendere lettura) Il quesito è doveroso anche visto lo spreco di denaro che molti ricchi fanno verso cose del tutto futili per l’umanità, o a scopi egocentrici/solipsistici/oligarchici proprio quando, invece, potrebbero ergersi a mallevadori della pace, dell’assistenza sociale, e medica, di un risanamento della politica, dell’economia e del mondo del lavoro, di dare una vita dignitosa a tutti, anche a chi è senzatetto, anche a chi è immigrato per sfuggire alle vessazioni che era costretto a subire nel proprio Paese di origine.

Poi, salendo di livello nella piramide di Maslow, ovvero passando dal macro-gruppo dei Bisogni Primari ai Bisogni Sociali, e nella fattispecie quelli legati alla Stima, ecco che in un mondo sovraffollato non possono esserci risorse minerarie sufficienti per realizzare prodotti per tutti della stessa qualità di un tempo e agli stessi costi di produzione, e prezzi di vendita (in proporzione all’inflazione chiaramente). È impossibile; e, conseguenza del fatto appena espresso, e a causa anche di un’economia guasta, e alla progressiva sostituzione della manodopera con la tecnologia per abbattere i costi, l’artigianato scompare, la qualità produttiva / i materiali / i servizi scadono di livello, e non ci si affida più a professionisti, designer, ingegneri, fotografi, architetti, tecnici specializzati blasonati, bensì a figure di classe b magari interne all’azienda del marchio stessa, cioè figure in debito di competenza, pressoché improvvisate in buona sostanza. In un mondo del lavoro così sterile i pochi che lavorano vengono oltretutto sottopagati e hanno da sfamare a casa mediamente anche tre o quattro persone, cosa piuttosto ardua da sostenere pensando a lungo termine.
È abbastanza chiaro: le materie prime hanno costi folli – in generale; da cui spesso l’opzione verso materiali di seconda scelta -, questo fatto unito al discapito derivante da un mercato che non cammina mette in ginocchio le aziende tanto quanto la pressione fiscale, gli imprenditori sono costretti pertanto a ridurre la forza lavoro (taglio quindi anche dei professionisti classe a, designer, artigiani ecc.) conseguendone come risultato una progettazione dozzinale, e una produzione/erogazione dei servizi tramite le macchine, gli automi, e le intelligenze artificiali. È così, purtroppo i lavoratori in generale, ma ancor di più le figure specializzate, specie dell’Occidente (in questo caso il termine “Occidente” sta per civiltà occidentale, quindi intendendo prettamente Europa – esclusa Russia e alcuni Paesi dell’est europeo, Grecia e Turchia -, USA, Canada, Oceania), hanno costi davvero elevati che tra l’altro si portano dietro una tassazione che è infettata dal debito pubblico (interno ed estero). Spaventate dai costi, le aziende quindi in definitiva non puntano sul mantenere la qualità di un tempo per difendersi dalla concorrenza, bensì mirano all’economia in termini di costi di realizzazione del prodotto/servizio, lasciandolo scadere qualitativamente e addirittura programmandone uno scadimento delle funzionalità nonché una consunzione anzitempo dei materiali (ma camuffando questa perdita di qualità infarcendo il prodotto di tecnologia, di cui è sempre opinabile l’utilità…), innescando un circolo vizioso per il cliente che, dapprima contento perché si balocca con in mano le ultime diavolerie tecnologiche, poi viene telecomandato a spendere ulteriori soldi per riparazioni o addirittura per aggiornarsi acquistando il nuovo modello, il restyling, la novità per essere sempre allineato con il presente che, lui è indotto a pensare, lo proietta nel futuro. In definitiva sono prodotti scadenti, in una visione d’insieme, con un pessimo rapporto qualità/prezzo derivante dal fatto che le aziende hanno i bilanci in rosso, per cui devono ricavare il più possibile dalle vendite, a valle di costi di produzione il più calmierati possibile.

Il disallineamento poi, a livello di prezzi sul mercato, con la concorrenza spietata di Paesi come la Cina che mantiene un tenore molto basso per i salari dei lavoratori del proletariato al fine di mantenere bassi i costi di produzione, non ha fatto altro che acuire i problemi di un’economia mondiale già malsana e di mercati a livello globale ormai quasi completamente sterili, a parte qualche rara eccezione (non aiuta d’altronde la guerra commerciale che le superpotenze in questi tempi stanno conducendo ponendo tasse/dazi doganali elevati sull’import per proteggere il mercato interno).
Ciò proviene dall’Estremo Oriente, quando invece, per rientrare realmente dei costi ormai insensati ai quali un’azienda deve far fronte per produrre un articolo di un tenore qualitativo decente, quest’ultima deve, o perlomeno, dovrebbe, proporlo sul mercato a dei prezzi davvero elevati (c’è da dire d’altronde che un lento, costante e inesorabile aumento dei prezzi, è stato e continua ad essere uno stillicidio che ormai non viene più bene percepito dalla popolazione, nonostante sia ormai evidente come i parametri dell’inflazione resi pubblici siano disallineati con i parametri di aumento quotidianamente tangibile dei prezzi specie sui settori di prima necessità).

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E allora per vendere, bisogna indebitare chi compra (a meno che chi compra non sia ricco, ma come descritto nel Capitolo I di questa trilogia, i ricchi veri in una nazione costituiscono circa l’1% della popolazione. Vedo infatti difficile che il cittadino medio padre di famiglia possa comprare casa – esempio un trilocale da 180.000 euro – senza ricorrere a un mutuo, ma pagando sull’unghia una cifra del genere. Ma basti pensare anche solamente che le persone ormai pagano a rate tutto, l’auto, la lavatrice, la tv, il cellulare, perfino le bollette. C’è gente che convive spregiudicatamente con cinque, sei, sette rate di finanziamenti diversi, quindi contemporaneamente in corso, ogni mese) tramite l’ausilio di istituti di credito (che applicano tassi di interesse da strozzini, e concedono i prestiti/finanziamenti anche quando l’etica non lo consentirebbe, ovvero a persone che sono già ultra-indebitate, e che non possono più sostenere un tenore di debito del genere), oppure, ed è questo spesso l’atto conclusivo, non si vende in definitiva, e si fallisce, si chiude i battenti.

Riassumendo, per i fattori appena espressi, John Smith, e quant’altri come lui, avrebbero potuto ancora oggi, ma ormai a fatica, beneficiare di determinate esperienze, con l’incognita però di non poterne più giovare un domani verosimilmente non così lontano.

***

E qui venne in mente al professore un’altra incognita non indifferente, ripensando ai concetti propugnati dal Macchi relativamente al laboratorio di Milano e alla centralità e ascolto della persona: c’era sì un pericolo, ovverossia che la persona preposta a test e ascolto esperienziali non fosse preparata, non fosse sufficientemente in target e/o non fosse sufficientemente colta, non fosse inoltre correttamente formata culturalmente, per capire e impersonare che delineamento, che inquadramento, il target stesso (ideale) rappresentava e sottendeva. Probabilmente era necessario profilare dei micro-target all’interno di ogni macro-target. Per esemplificare, un giovane che ascolta la musica da un servizio musicale che offre lo streaming on demand, utilizzando auricolari e smartphone fa sì parte di un macro-target dei musicofili, ma all’interno di tale macro-target egli risiede in un micro-target che è diverso dal micro-target di chi invece ascolta musica in compact disc, o ancora meglio, in dischi vinile, da un impianto hi-fi professionale con componenti separati.

Gli elementi variabili che componevano questa sorta di equazione algebrica (della possibile mancata ripetizione dell’esperienza nel tempo, e del grande mosaico del mondo e della vita) erano in definitiva: allontanamento progressivo nel tempo dall’artigianato (intendendo con artigianato anche il design di qualità, qualità artigianale) verso un’era dell’automazione e produzione di serie ad opera dei robot (per cui allontanamento della qualità della manodopera dalla produzione, meno lavoratori, meno stipendi, meno soldi reimmessi sul mercato interno); la sovrappopolazione globale; l’economia mondiale guasta; lo scadimento dei materiali a causa della scarsità di risorse minerarie; i costi di produzione, e i prezzi sul mercato; la giusta indagine sulla cultura e successiva collocazione delle persone nel loro micro-target di appartenenza, per risultare poi idonei a essere sottoposti ai test e ascolto esperienziali durante le fasi di ideazione, di progettazione, di concept/design, di restyling del servizio, del prodotto, dello spazio/ambiente/urbanistica.

***

John rinvenne dai suoi pensieri che ormai dormivano tutti i passeggeri attorno a lui, era ormai quasi la mezzanotte, spense allora la torcia direzionale che era ricavata nel design del poggiatesta. Era meglio appisolarsi un po’, lo scalo a Francoforte era previsto per le 6 e 30 della mattina. Era felice il professore, era compiaciuto, finalmente un po’ di adrenalina e aspettazione per qualcosa di interessante, di diverso dalla solita routine, tutto sembrava filare liscio, in quella notte tutto sembrava sorridergli, l’Italia lo attendeva, come una delle sue amanti, dopo così tanto tempo. Avrebbe rivisto Milano, ma voleva dedicare dei giorni anche per rivedere altri luoghi eterni, luoghi ameni, luoghi vissuti, luoghi che hanno visto vivere ed esprimersi grandi personaggi. Grandi personaggi che hanno reso splendidi e di un fascino immortale i luoghi nei quali hanno scelto di passare il loro tempo. Ogni grande personaggio, grande anche per la sua integrità culturale, ha lasciato un segno tangibile e godibile nei luoghi ov’egli è passato, ha dato il suo contributo per vestire di magnificenza la landa selvaggia, un’azione del dare quindi ma anche del ricevere, in quanto chi dona, verrà ricordato in sempiterno.
Città millenarie, si presentano oggi ai nostri occhi così come il crocevia di popoli, di regni, di re, imperatori, mecenati, statisti, artisti, filosofi, scienziati, le ha fatte, adeguandole, ma anche esaltandole, in relazione alla posizione geografica. Una delle letture preferite del professore era il romanzo in tre volumi di Goethe, “Viaggio in Italia”, un Grand Tour che l’autore compì in due momenti diversi, a quarant’anni di distanza l’uno dall’altro; il Belpaese possiede una infinità di tesori, spesso inesplorati, che affascinano, sempre, gli intellettuali ma più in generale le genti provenienti da ogni dove.
È la grande bellezza, di poter vedere un angolo di sera, dal pronao di una villa del Palladio.

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È la grande bellezza, del seggiar lungo via Condotti verso Piazza di Spagna, con la sua celebre Fontana della Barcaccia dei Bernini. È la grande bellezza, del tenere per mano la propria dama seduti in fronte al dolce dondolio del canal grande della gondola, e scorgere dopo la facciata di Palazzo Ducale, la Piazza più bella al mondo con il suo Carnevale. (intermezzo musicale)

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(riprendere lettura) È la grande bellezza, del poter assaporare la vera pizza da una terrazza sul Golfo di Napoli, e salutare gli sposi che si affacciano dalla Sala della Loggia di Castel Nuovo. È la grande bellezza, di stare in mezzo alla folla nella Piazza del Campo a Siena e vedere sfrecciare i cavalli delle contrade del Palio.
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È la grande bellezza, di visitare Firenze, con i capolavori del Michelangelo, Palazzo Vecchio, la Cupola del Brunelleschi, il campanile di Giotto, Ponte Vecchio. È la grande bellezza, di sedersi a tavola all’aperto sotto la veranda di un agriturismo, immersi nel verde della Maremma toscana, e godersi una fiorentina ai ferri accompagnata da un calice di Brunello di Montalcino Riserva Docg 1997. È la grande bellezza, di alternare gli azzurri infiniti di località di mare come Santa Cesarea Terme e Otranto,

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e i bianchi che virano sul giallo paglierino della pietra leccese che veste lo stile Barocco del Salento. È la grande bellezza, di sedersi sugli spalti dell’autodromo di Monza e veder vincere la Ferrari di leggende dello sport come Alberto Ascari, Phil Hill, John Surtees, Clay Regazzoni, Jody Scheckter, Michael Schumacher.

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È la grande bellezza, di incontrare luoghi ove il tempo si è fermato, e vedere dei bambini giocare per strada alla Lippa, sotto il sole siciliano. E’ la grande bellezza, di andare al Teatro alla Scala, e dopo il conviviale discorrere con altre coppie di signori, raggiungere il proprio palco riservato antistante alla platea, e attendere l’aprirsi del sipario.

***

Alla parola “sipario” John Smith aperse improvvisamente gli occhi, un leggero tremolio del sedile gli aveva dato la sveglia, l’aereo era infatti appena atterrato all’aeroporto di Francoforte sul Meno. Dopo qualche minuto, uscirono dalla cabina di pilotaggio il comandante Arthur Walker Connelly e il primo ufficiale Casey Spencer, tra gli applausi dei passeggeri, bisognava dare atto del fatto che il volo era stato ineccepibile sia in fase di decollo, sia in quota, e anche durante l’atterraggio era andato tutto liscio come l’olio. «Che compagnia efficiente e sicura» rifletté il nostro eroe.

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La coincidenza per Milano Linate era prevista per le 8, c’era pertanto un’ora e mezza di scalo innanzi, allora John e Fred si recarono nella hall, dove edicola e bar erano già aperti, un binomio perfetto da non lasciarsi scappare. «Il caffè in Germania… Mah, sempre meglio che il beverone bollente come la lava che ti servono a Boston. Bene procediamo!» pensò il professore lisciandosi i baffi, d’altronde sarebbe stato imperdonabile perdersi un krapfen alla marmellata in accompagnamento al caffè. «La colazione dei campioni!» rifletté, meglio del muesli o della pappa reale. Probabilmente per un tedesco la colazione dei campioni era piuttosto una pinta di Weissbier accompagnata da un Frankfurt Wurst mit Brot und Kartoffeln. De gustibus non est disputandum, si sa.

Come era solito fare ogni mattina, e nonostante la presenza dell’ospite, prima della colazione al bar il professore si recò in edicola a prendere il giornale; solitamente, a Boston, prendeva una copia gratuita del Beacon Hill Times, ma certo non avrebbe potuto trovarla qui a Francoforte. Va aggiunto che, mettersi a leggere una sorta di gazzetta locale della sua città seduto nella hall di un aeroporto importante come quello di Francoforte, avrebbe stonato un tantino. Passò dunque in rassegna i quotidiani più prestigiosi esposti nello stand dell’edicola, Frankfurter Allgemeine Zeitung, Il Sole 24 Ore, Le Monde, Financial Times (il quotidiano più autorevole del mondo), quando l’occhio venne rapito dall’influente The New York Times International Edition.

Lo acquistò, era decisamente la scelta giusta, per darsi un tono di eleganza. Era ancora l’edizione di martedì 26, non c’era ancora quella del mercoledì 27, probabilmente di lì a una manciata di minuti sarebbe arrivata ancora calda di stampa, ma gli sembrò veramente un dettaglio. La colazione fu resa decisamente piacevole grazie a questa lettura di élite, di un tenore qualitativo veramente elevato. Il professore rimirava questo nuovo acquisto, «questo giornale è un oggetto d’arte» rifletté, la bellezza del logo con i caratteri gotici, l’aplomb della veste grafica con queste lunghe linee sottili nere che costeggiavano i bei caratteri tipografici degli articoli conferendo grande stabilità verticale al layout ed eleganza, la qualità delle fotografie, alternate tra colore e bianco e nero, il formato del quotidiano, un broadsheet (lenzuolo) a sei colonne, e la qualità della carta, una riciclata che pareva quasi patinata, non si arricciava, nemmeno sugli angoli, e stava sempre perfettamente piana e compatta una volta riposto il giornale sul tavolino; la precisione di stampa a rotocalco e l’inchiostro di un’intensità perfetta rendeva i caratteri più neri della notte e le foto così vive che da un momento all’altro avrebbero potuto animarsi; infine, sulle civette sopra il logo un tocco di rosso Tiziano e delle foto di taglio fortemente oblungo le quali parevano delle piccole finestrelle che permettevano di affacciarsi sul mondo se solo si appoggiava l’occhio alla sottile fessura. Tutti questi elementi accompagnavano chiaramente il cuore del quotidiano, ovverossia articoli di grande spessore e precisione, di grande intensità intellettuale e culturale, scritti da giornalisti di spicco che presidiavano l’intero pianeta, i fatti che veramente contavano, reali e presentati al lettore nella loro integrità per perseguire sempre quel fondamento imprescindibile che è l’onesta intellettuale. Straordinario inoltre l’equilibrio tra capacità di indagine e analisi capillare a livello globale, e la bravura di condensare l’intero patrimonio notiziario in una foliazione a 16 massimo 20 pagine, elemento che compartecipava a rendere il quotidiano così pregiato, oltreché raffinato nella foggia e da un punto di vista tattile; da questi elementi era chiara la volontà di mantenere gli stilemi di maggior pregio appartenuti ai quotidiani più antichi, elementi stilistici che hanno così attraversato indenni 3 secoli di storia per arrivare integri oggi nelle mani di chi sa apprezzare.

E, come detto in precedenza, John Smith sapeva apprezzare. Sapeva apprezzare persino il tentativo di stare in silenzio del suo compagno di viaggio, che aldilà del maestoso quotidiano tenuto fra le mani da John, era impegnato a trangugiare in sequenza una brioche alla crema, una crêpe alla Nutella bollente, e una ciambella caramellata alle albicocche secche, le quali accompagnavano un mocaccino doppio; aldiquà dell’imponente giornale il professore era assorto nella lettura e protetto, trincerato, dall’ingrata visione della prima colazione del suo amico. Ad un certo punto però John mandò su lo sguardo oltre le alte colonne della pagina su cui era, e vide una donna di grande charme appena sedutasi al tavolino di fronte, John non poté fare a meno di notarla in quanto venne inebriato dalla scia di Cabochard che ella indossava. Le mani affusolate e protette da dei guanti neri di raso aprirono un portacipria con specchio, probabilmente inglese, in stile art déco. Il nostro eroe, non riusciva a scorgere pienamente l’intero volto della donna, in quanto dalla punta del naso in su era nascosto dalla tesa larga di un cappello Fedora vintage. Questa dama misteriosa ogni tanto sollevava impercettibilmente il capo per osservare fugacemente e con garbo il professore, il quale certo non poté rimanere indifferente. Ma per una volta l’aspetto intellettuale vinse su quello della seduzione, egli pertanto finì l’articolo di geopolitica che stava leggendo, scritto da Chris Buckley, e diede uno sguardo al suo orologio, per il viaggio aveva scelto di indossare uno Jaeger-LeCoultre Reverso con cassa in acciaio e cinturino in pelle di alligatore color bleu. Segnava le 7 e 30, era giunto il momento di imbarcarsi.

***

Alle 8 in punto, l’aereo staccò le ruote da terra, l’Italia si avvicinava, ancora poco più di un’ora e finalmente dai finestrini si sarebbe potuto ammirare il Lago di Como con le sue preziose ville, costruite in epoche diverse, Villa Serbelloni in epoca romana, la barocca Villa Carlotta, la neoclassica Villa Melzi d’Eril, la neorinascimentale Villa Erba; e naturalmente Villa del Balbianello, punta di diamante del lago, costruita alla fine del Settecento. Dopo il Lago di Como in un batter di ciglia il Boeing 737 cominciò a scendere gradatamente di quota, l’atterraggio a Linate avvenne alle 9 e 15 come previsto, d’altronde il tempo era stato clemente, e la visibilità ottimale.
“John, per che ora è previsto l’incontro con Ludovico Macchi?”
“Ludovico ci aspetta per le 11 e 30 al Caffè Panutti che sta di fronte al Grattacielo Pirelli, è la zona della stazione centrale dei treni. Abbiamo il tempo di lasciare i bagagli in hotel, e fare una doccia. In effetti avrei dovuto fissare l’appuntamento con Ludovico per il pomeriggio per poter smaltire un po’ il jet lag, chiedo scusa.”
“Bene. No figurati, ho dormito quasi tutto il viaggio. Mi sento carico!”
“Eccellente, poi col Macchi ci beviamo un bell’aperitivo alla milanese, ricco di cicchetti molto sfiziosi, penso che apprezzerai!”
“Beh sì, se devo essere sincero, un buco nello stomaco io ce l’avrei anche.”
“Lo sospettavo, ottimo allora, e poi ci sposteremo in Viale Monza ove risiede l’XP Lab, lì ci attendono Ambrogio Molteni e Maurizio Bodini. Molteni è uno User Experience Designer e User Interface Designer. Bodini invece è uno psicologo e antropologo.”
“Interessante. Potrebbero essere stati degli allievi del Macchi.”
“E’ un bel quesito, glielo chiederemo tra poco!”

***

Milano, trent’anni dopo. Non era più solamente una grande città, era divenuta una grande metropoli cosmopolita, un crocevia di razze, culture, gusti, abitudini, costumi, lo stesso che potevi trovare a Hong-Kong, New York, Parigi, Berlino, Rio de Janeiro, Sidney. Una volta si diceva, “Paese che vai, usanza che trovi”, ma in questo caso non aveva ormai più molto senso. La gente, quale che fosse, non parlava più milanese, parlava un italiano scolastico, ma molti non parlavano nemmeno se si incontravano per strada, anzi, non si salutavano neanche. Si correva, ora come allora, quello sì, forse oggi di più, ma i volti non erano più distesi come quelli di una volta, gli sguardi erano oggi stralunati, consumati, vuoti.

Milano

Scesi dall’Hotel, John e Fred camminarono lungo la via Vitruvio in direzione della stazione FS, furono superati ad un certo punto da un vecchio tram su rotaie, fu la prima cosa che fece avvertire nuovamente al nostro eroe il sapore di quella Milano del 1990, quel tram sembrava uscito dal set di un film, pareva surreale il fatto di vederlo oggi dove non era più distinguibile uno stile definito, in tutto, e in tutti. Si sentiva spaesato il professore, girò allora la faccia verso il suo amico, per scrutare la sua espressione, e rimase sorpreso nel constatare che al contrario il suo compagno di viaggio aveva l’aria rilassata, e divertita. «E sia», pensò, non poteva certo pretendere che fosse stato messo via tutto nella naftalina e tirato fuori in occasione del suo ritorno, questo non era più un giro in giostra, era un brusco specchiarsi nel presente, il cui riflesso sinistro non mente mai. Forse era un errore essere tornato, temeva di rovinare il bel ricordo che aveva dell’Italia, ma queste erano le paranoie di una persona psicologicamente esaurita, consumata da una routine quotidiana troppo ripetitiva, monotona, un giorno uguale all’altro, e all’altro ancora, e un isolamento autoimposto che se dapprima gli dava sicurezza, oggi era la sua dannazione. (intermezzo musicale)

(riprendere lettura) Il Grattacielo Pirelli scintillava ormai di luce man mano che svettava sempre più davanti ai loro occhi con la sua imponenza e il suo fascino, l’architettura di Gio Ponti stava lì, a ricordare la grandezza, e la potenza, imprenditoriale di Milano. C’è da dire che, contrariamente a molte città italiane, Milano godeva ancora oggi di una buona amministrazione, che garantiva un certo decoro e pulizia, e un discreto welfare, nonché attenzione particolare per una riqualificazione urbana sostenibile. Ma probabilmente non era abbastanza, questa gente, queste persone, che il professore vedeva per strada, avevano l’animo a pezzi, come se avessero dovuto combattere per molti anni una guerra contro la disoccupazione, la povertà, la malattia, e il fato, prima di riuscire a raggiungere finalmente un equilibrio in economia domestica decentemente dignitoso. Ecco, tutto qui, in una guerra di questo tipo, il prossimo tuo era sostanzialmente tuo nemico, un rivale da anticipare, da boicottare, da turlupinare, e di cui prenderne il posto, e una volta conquistato quel posto, difenderlo con i denti, dagli attacchi di altri. Si spiegava quindi l’isolamento che era rimasto per ognuno intorno a sé, il silenzio, che pervadeva le persone, e le rughe che segnavano i volti, emaciati dalla disillusione di una vita che si era rivelata difficile, in un mondo di nemici. «Un mondo di vipere, questo siamo, chi oserebbe sacrificarsi per il prossimo, oggi? È vero, lo ammetto, e anch’io sono così. È nel DNA, ormai, il rivendicare il proprio posto, il proprio status, e se serve, spogliarsi di ogni remora, di ogni ritegno, di ogni dirittura morale ed etica, per sferrare qualche colpo basso verso qualsiasi direzione da cui arrivi una minaccia; è l’aver dovuto lottare, morire e nascere nello stesso giorno, ripartendo dal basso, ripartendo da zero, ogni volta, mettendo via le lacrime, per molto, troppo tempo, ad averci reso così, sì, delle persone più che mai attaccate a quel poco che hanno conquistato versando lacrime e sangue, e non c’è più commiserazione, non c’è più altruismo, non c’è più fratellanza, non c’è più amore, c’è solamente l’interesse, nel ricevere dando possibilmente di meno, per concludere un buon affare. Sì, il quotidiano è oramai una questione di affari, per aggiungere un soldino in più e allontanarsi un altro metro, e ancora un po’ più in là, da quella carestia che si era avvinghiata a noi, perché era toccata a noi, e ora sappiamo quanto fa male. Certe cose, certi eventi, finché non li provi sulla tua pelle, non sapresti ponderarli, ma poi, dopo che li hai provati, dopo che li hai subiti, ti segnano, e diventi un altro tipo di persona, cambi, per forza.» (intermezzo musicale)

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(riprendere lettura) Non erano passate che poche ore da quando aveva toccato di nuovo il suolo italiano, che il nostro eroe stava già prendendo coscienza del cambiamento, di un mondo che non c’era più, e difficilmente sarebbe tornato. Forse è proprio questo che ci fa invecchiare, ogni volta che qualcosa di bello finisce, siamo impotenti nel dover accettare ciò che avanza, perché è quello che porta la marea, uno cerca di divincolarsi, di scuotersi, di opporre resistenza, ma l’unica cosa che rimane è di tenere stretto quello che ci è rimasto, e sopravvivere. (intermezzo musicale)

***

(riprendere lettura) Lasciatisi la stazione dei treni sulla destra, costeggiarono la facciata del Palazzo Pirelli lungo la Piazza Duca D’Aosta, e in piedi nel sottoportico del palazzo adiacente stava un signore sopra i cinquanta, con occhiali da sole aviator anni’60 della Bausch & Lomb, coppola e soprabito. Sembrava sull’attenti, immobile, braccio lungo i fianchi. Se non fosse stato per la sigaretta che quasi si dimenticava di portare alla bocca, lo si sarebbe potuto scambiare per una statua. Li guardava i due arrivare, con un mezzo ghigno, allora John si fece coraggio:
“Ludovico?”
L’uomo non rispose, ma semplicemente si profuse in un abbraccio all’amico americano, poi partì una gran risata da entrambi.
“Ce l’hai fatta a ritrovare la strada di casa, vecchio furfante, era ora! Felice di rivederti John! Come stai? Avete fatto buon viaggio?”
“Io felice di revederti Ludovico! Hai ragione, ne è passato di tempo, ti trovo very good!”
“Grazie, anche tu te la cavi bene mi pare!”
“Grazzie, tutobbene, viagiou was perfect, terrific! Ti presento Fred Livingstone, consulente marketing per la moltinazzionale americana di abiggliamento sportivo I talked to you about, la Naikii. Lui è di Portland.”
“Ah, piacere Fred, stai abbastanza vicino a John allora, nel Maine, cosa saranno, 200 km da Boston?
“Piaccere mio, ah no, magari, sono di Portland Oregon, sulla costa west.”
“Caspita, allora sì che è lontano da Boston, a questo punto potreste esservi conosciuti a Las Vegas, al tavolo da gioco, sbaglio?! So che John ogni tanto frequenta quelle zone…”
La precisione investigativa del Macchi lasciò esterrefatti i due americani.
“Ludovico, non sappevo della tua parentela con Sherlock Holmes, compliments!”, scherzò John.
“Era mio nonno, sì, in effetti. Mentre mio zio era il commissario Betti, mai visto?… Grazie comunque che parlate italiano, è sempre un piacere!”

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“Ehh… No, ci manca, I suppose. Polizzieschi italliano anni Seventies?”
“Beh ma certo, e di alta scuola. Era un grande quel Betti lì ehh?! Di certi inseguimenti, e poi c’aveva la sberla facile! Altro che ‘ste mammolette di oggi delle fiction!”
“Comunque, mi farebbe piaccere raccontarti l’anedoutou di come ci siamo conosciuti al tavolo della roulette, at Bellagio, me and Fred.”
“Oh, ma sìsì, sono tutto orecchi, ué ma sediamoci prima qui al bar, con un Martini on the rocks e qualche cicchetto special, ecco che mi esce l’inglese per l’occasione, eheh, cosa ti credevi?!”

Chiacchierarono amabilmente per almeno un’ora, si rifocillarono, poi Ludovico Macchi si fece serio per un momento per rispondere al telefono, al che John Smith riconobbe finalmente l’espressione di un tempo del suo camerata, il quale era invecchiato forse meglio del nostro eroe, con più filosofia sicuramente perlomeno, nonostante vivere in Italia, da almeno dieci anni a questa parte, non fosse più cosa facile. Paradossalmente il professor Smith, che viveva a Boston, una delle città più ricche degli States, era diventato una persona quasi depressa.

***

Dopo essersi mangiati anche un risotto giallo alla milanese e bevuti un buon caffè nel ristorante che stava lì a fianco del bar, il Macchi guardò l’ora sul suo Patek Philippe Nautilus 5712 acciaio e oro, un orologio di grande pregio e rarità.
“Ragazzi, sono quasi le due, che ne dite, potremmo appropinquarci verso il laboratorio?”
“Approach pinquairs?”, fece Fred interdetto.
“Oh, chiedo scusa, ho usato un termine un po’ ricercato, appropinquarsi, non penso che lo insegnino sovente nei corsi di italiano, pardon, significa avvicinarsi, dirigersi verso qualcosa o verso un luogo essendo comunque già vicini ad esso in partenza.”
“Understood, grazzie mile. Yes, possiamo andiamo.”
“Possiamo andiamo! Mi piace!”, scimmiottò il Macchi. “Benone, dirigiamoci verso la piazza, di fronte alla stazione centrale FS, e scendiamo a prendere la metro, o subway come la chiamate voi. È questione di 20 minuti, salvo code esorbitanti… E siamo arrivati all’XP lab.”

Milano-piazza-Duca-d-Aosta

“Wonderful, non vedo l’ora di inizziarre!”, ribatté Smith.

Furono abbastanza fortunati, l’accesso alla metro fu agevole e senza attese, successivamente un cambio a Piazza Loreto di pochi minuti, e poi via verso viale Monza con la linea 1. «Pratico, veloce!», pensò Fred Livingstone, pregustando il momento in cui avrebbe portato, per la seconda spedizione, l’amministratore delegato di Naikii Leslie Richardson, un tipo difficile da impressionare, sarebbe dovuto davvero andare tutto liscio, a regola d’arte, inammissibile qualsiasi genere di intoppo.
Usciti in strada dalla metro, pochi minuti a piedi e arrivarono al laboratorio, era ubicato in un moderno palazzone bianco con di fronte annesso ampio parcheggio.

***

Il nostro eroe, era adesso molto felice, tutte le paure si erano dissolte, il temperamento esuberante del Macchi l’aveva rassicurato, gli aveva fatto venire il buonumore. Suonarono al citofono per farsi aprire dal Molteni e dal Bodini, il professore volse indietro la faccia, quando incredibilmente scorse in lontananza un viso già noto. «Quella donna… Io la conosco, mi è familiare. Dove l’ho già vista?… Ah ma certo, all’aeroporto di Francoforte, era seduta davanti a me quando stavamo facendo colazione… ciò è singolare, è una coincidenza troppo strana! Perché è qui? Che mi abbia seguito fin dal principio? E perché mai? Forse potrei chiamarla, e chiederglielo!…».
“Excuse me madam!… Please, I have a question, madam, don’t go… Excuse me?!”, ma la donna, non appena resasi conto di essere stata riconosciuta, si insinuò tra la folla e disparve incredibilmente nel nulla in pochi attimi, poi John la intravide salire furtivamente su un’auto che si dileguò a tutto gas.
L’episodio era a dir poco sospetto…
“John, tutto bene, cosa ti succede?”, incalzò allora il Macchi.
“I don’t know, perhaps I was wrong, I thought to have recognized one person I’ve already seen somewhere else”, replicò il professore dimenticandosi per un momento di parlare italiano per gli attimi concitati che si erano susseguiti in rapida successione. “Scusate, saliamo pure al laboratorio, è tutto ok now.”, disse, ripresosi.
“Sei sicuro?… Ok, dai sarà solo un po’ di stanchezza, ma tranquillo, su i ragazzi ti danno una bibita e ti siedi un po’ in sala d’attesa così ti riposi mentre io comincio a spiegare un po’ di cose a Fred”.
“Grazzie mile Ludovico, very kind of you!”.
Presero l’ascensore, quarto piano. Mentre salivano, il nostro eroe era ripiombato, comprensibilmente, in un brutto stato psicologico. «Possibile che mi abbiano spiato? Ma da quanto tempo allora, mi controllano, e perché mai? Forse ho il telefono sotto controllo… Non riesco a capacitarmi di questa cosa. O forse, ecco, Fred ha il telefono sotto controllo, stanno seguendo lui, non me, è spionaggio industriale, hanno intercettato la telefonata che ha avuto con me, che gli avevo fatto lì a Boston, dal campus. Quando hanno sentito il programma che avevamo qui in Italia, hanno rizzato le antenne. Che carogne però… Va bene, adesso mi posso calmare, e anzi, non dirò nulla a Fred, non voglio rovinargli questo momento. Massì, faro così, non c’è da preoccuparsi probabilmente, ora devo solamente fare un respiro profondo, e calmarmi. E sta bene ragazzo, è andata, non ci sono pericoli in vista, dai, devo solo calmarmi.».

***

Percorsero un lungo corridoio, la cui parete di sinistra era intervallata da delle grandi finestre, dalle quali era possibile dare uno sguardo sul circondario; verso nordest, si vedeva una zona industriale di una certa estensione, con antistante molto verde per dare maggiore equilibrio alla composizione urbanistica.
“Mi piacce Milan!”, esclamò Fred Livingstone, come per stemperare la tensione che era pocanzi venutasi a creare, essa era ancora palpabile sul viso dell’amico. Ciononostante, John rispose con un ritrovato sorriso, distensivo per tutti; era un raggio di sole dopo il temporale, in senso figurato parallelo allo spazio ritrovato dopo una costrizione che ti toglie il respiro, quest’ultima era la condizione psicologica che aveva prodotto nel professore la seconda apparizione di quella donna charmante e misteriosa. La nostra umoralità, non è solamente dipesa dai fatti che ci accadono, bensì al contempo, quindi in stretta associazione sequenziale, è determinata dagli elementi spaziotemporali che ci circondano, ai quali il nostro subconscio associa, per un retaggio culturale e per le esperienze vissute, determinate emozioni. Il nostro eroe poi, era probabilmente un uomo particolarmente sensibile ad ogni minimo dettaglio, lo viveva più emotivamente rispetto ad altre persone.

In fondo al corridoio, Ambrogio Molteni e Maurizio Bodini fecero capolino sulla porta d’ingresso del laboratorio, accogliendo gli ospiti in un ambiente fortemente caratteristico, pregno di significati che deducibilmente erano forieri di una vision ben radicata. Il minimalismo, le pareti, alcune rivestite in listelli di legno grezzo di abete, altre verniciate a tempera su varie tonalità cromatiche del verde, i giochi di luce, i pieni e i vuoti, l’architettura degli spazi, gli angoli di vegetazione che coniugavano perfettamente il respiro della composizione, tutte queste cose, non erano certamente casuali, e chiaramente il professor Smith le seppe apprezzare, ma non chiese nulla, dopo le reciproche presentazioni semplicemente si sedette in silenzio come lo spettatore composto e attento di una proiezione cinematografica.

Il Molteni e il Bodini vollero infatti permeare di effetto sorpresa l’intera dimostrazione, come a dire: prima godetevi lo spettacolo lasciando scorrere liberamente le emozioni, e poi vi spieghiamo a cosa avete assistito. Si accomiatarono dagli ospiti per recarsi nella stanza attigua. Si dissolsero allora le luci, e sul megaschermo comparve un giovinotto di una certa prestanza fisica, ripreso da diverse angolazioni e variando il tipo di inquadratura, ora un primo piano, ora una soggettiva, oppure una d’insieme in cui compariva assieme al Bodini e al Molteni, e veniva da essi istruito, e successivamente ascoltato.
“Gaetano, questo è un casco Emotiv Epoc che legge le onde cerebrali, effettua in buona sostanza un elettroencefalogramma (tra gli addetti ai lavori più comunemente chiamato con il suo acronimo EEG), questo ci permetterà di registrare le tue emozioni durante il test al quale tra pochi istanti ti domanderemo di sottoporti. Ti chiedo ora quindi per cortesia di indossarlo, non spaventarti, è completamente innocuo per la tua salute, non c’è da preoccuparsi.”, disse il Molteni. E proseguendo: “Questo invece è un cardiofrequenzimetro da polso della Suunto.”
“Perfetto, sono pronto.”, rispose il ragazzo, allora il designer applicò l’apparecchiatura EEG sul suo capo, e fece infilare al polso il cardiofrequenzimetro.
“Ora ti farò vedere un video, inizierà con un frammento del recente Super Bowl tra i New England Patriots e i Los Angeles Rams. Ad un certo punto ci sarà una interruzione pubblicitaria, dopodiché si ritornerà alla partita. Tu dovrai semplicemente osservare, fruire da spettatore, non servono azioni e/o commenti da parte tua in questa fase. Ora ti faccio fare la eye tracking calibration sul Tobii Pro Screen Eye Tracker: avvicinati al monitor per favore, quindi tieni ferma la testa e segui con lo sguardo il cerchio rosso… Bene, ottimo, calibrazione avvenuta con successo.”
Molteni fece allora partire il filmato; il giovane dal canto suo lasciò trasparire, dalla sua espressione facciale, un certo gradimento nel guardare in apertura il touchdown dei Patriots. Al boato del pubblico sugli spalti dello stadio, i balli delle Cheerleaders, e i commenti entusiasti dei telecronisti per la prodezza del wide receiver che era riuscito a eludere i placcaggi dell’outside linebacker e del cornerback dei Rams, seguì una réclame della Naikii in cui un velocista dei 100 metri si posizionava sui blocchi di partenza, dopodiché primo piano sulla concentrazione e la trepidazione evincibili sul suo volto,

atleta

suo sguardo fugace sulla sinistra per osservare lo starter alzare in aria la pistola e apprestarsi a sparare; il visivo era accompagnato da una musica elettronica di sottofondo ritmata da un sequencer che ricordava vagamente i battiti cardiaci, e in sovrapposizione uno speaker in inglese pronunciava le seguenti parole, cadenzate intervallandole con delle pause nel parlato: «Being ready… Means never wasting any time… And expressing your power… To be the fastest… Until you reach the finish line.».  Cambio inquadratura, questa volta sull’intera figura, e slow motion dello scatto di avanzamento dell’atleta con contemporaneo movimento di camera che da frontale, tramite braccio mobile montato su carrello, passava lateralmente e zoomava sulle scarpe seguendole poi con una carrellata in avanti da dietro, quindi ritorno al normal motion con uno switch off della musica e switch on graduale dell’incitamento della folla man mano che l’atleta arrivava al traguardo. Finale dello spot in cui la carrellata in avanti si fermava lasciando allontanarsi il velocista che alzando le braccia al cielo tagliava il traguardo, logo Naikii in sovrimpressione in basso a destra e slogan “Keep yourself forward. Now is the game” tutto minuscolo in arial bold bianco, posizionato a sinistra del logo, e bandierato a destra. Finito lo stacco pubblicitario si tornò quindi alla partita, con il wide receiver dei Patriots pronto a calciare per l’extra point dalla linea dei 3 yard, punto poi trasformato con la palla ovale che volava tra i pali verso la tribuna dello stadio gremito in ogni ordine di posto.
“Bene Gaetano, grazie, ora Maurizio ed io andiamo a fare un audit dei dati registrati, ed elaborati dal software. Tra poco, Maurizio nell’esporti le deduzioni logiche derivanti dai dati ti spingerà ad un think aloud, letteralmente un pensare ad alta voce che ti permetterà di condividere con noi le tue impressioni argomentandole, verrai posto ad un ascolto che segua i binari dell’indagine psicologica e antropologica.”
“Bene, quando volete io sono pronto!”
“Ci fa piacere!” Intervenne il Bodini, congedandosi dal giovine assieme al Molteni per alcuni minuti, e poi proseguendo: “Chiaramente l’analisi completa dei dati verrà fatta a posteriori, e consegnati a Naikii un output cartaceo, un documento in digitale a slides, e il filmato integrale del test effettuato; abbiamo d’altronde fatto già una prima lettura dei dati acquisiti dallo strumento di neuromarketing eeg, e della heatmap derivante dalla Oculometria, quest’ultimo termine che ho usato è la traduzione del più diffuso Eye Tracking. Gaetano, tu hai palesato un sentimento di apprezzamento quando il filmato è cominciato, quindi nella visione del touchdown della partita di football americano; l’Emotiv Epoc ci ha passato dei valori interessanti. I parametri che analizziamo dal dispositivo sono l’emotional valence, l’engagement, la respiration rate, la attention, la skin temperature. E chiaramente, abbiamo invece la heart rate dal cardiofrequenzimetro. Tu conosci l’inglese vero?”
“Si, certamente.”
“Bene, avrai quindi senz’altro capito i termini che ti ho appena elencato.”
“Confermo, grazie sì.”
“La heatmap, eccola qui, non ha punti particolarmente caldi di focalizzazione dello sguardo, come puoi vedere sono invece molteplici le aree in azzurro, piccole e distribuite, questo sta a indicare il fatto che il tuo interesse si è distribuito, fotogramma dopo fotogramma, su tanti particolari, quasi che fosse la prima volta che vedevi una partita di football americano e ne fossi affascinato. Sto dicendo cose vere?”
“Sì, assolutamente! In effetti non ci avevo mai fatto troppo caso a questo sport, guardo spesso la Serie A, la Champions, l’NBA, qualche finale di tennis, o di rugby, non immaginavo quanto spettacolare potesse essere il Super Bowl della NFL, in ogni suo aspetto!”
“Tu pratichi dello sport immagino, vista la tua corporatura.”, asserì il Bodini.
“Sì, ho alcuni attrezzi a casa, alla sera faccio un po’ di esercizi per mantenere tonica la muscolatura.”
“Come vivi questa cosa? Voglio dire: alla sera, stanco dal lavoro, trovi comunque tempo ed energie per fare un po’ di fitness. Non tutti lo farebbero, compreso il sottoscritto…”
“Per me è come una valvola di sfogo, ne ho sempre avuto bisogno, ho sempre trovato in questo sport in particolare un modo per sfogarmi, per scaricare la tensione.”
“C’è qualcosa della giornata che ti arreca particolare stress?”
“Più che altro un retaggio del passato, su cui la mente ritorna a rimuginare ancora oggi.”
“Vorresti parlarne?”, domandò il Bodini.
“Sì, posso…”, replicò il ragazzo accigliandosi. Passò qualche istante, poi riprese: “… Mio padre era un maratoneta, ha vinto dei premi. Ha presente la delusione di un padre nel vedere fallire il proprio figlio, il quale tradisce le aspettative in relazione al tramandamento di un’eccellenza, di generazione in generazione? Ebbene, questo è il mio caso, io sono il figlio che ha disatteso, che è venuto meno, il minus quam, motivo di delusione e collera da parte di un padre, che mi ha costretto per anni a correre con lui, erano domeniche mattina massacranti, io tentavo ogni tanto di fermarmi per riprendere fiato, per bere, ma lui mi obbligava a proseguire. Rammento che in più di un’occasione svenni dalla fatica. È stato un incubo. Al ricordo, ne soffro ancora oggi.”
“Posso immaginare… Questo spiega il tracollo di interesse da parte tua che le nostre apparecchiature hanno rilevato, quando è partito lo spot pubblicitario. Poi però, vista la qualità artistica dello stesso, i valori della tua attenzione e gradimento sono ritornati su livelli interessanti. Cosa ti è piaciuto maggiormente di questo spot? Cosa ti ha colpito maggiormente?”
“Il messaggio, prima ancora del ritmo della sequenza scenica, che è superlativo. Ho una certa sensibilità per le cose belle.”
“Sì, l’ho percepito, ma sei sensibile di tuo, non ti deriva dai traumi dell’infanzia di cui mi hai accennato. Vedi la sensibilità è un dono raro, paragonabile all’afflato per l’arte, con il quale nasciamo. Non si impara, non si acquisisce, ma certo si affina con l’esperienza, con le esperienze di vita, questo sì, ma come ripeto, non nasce da zero dalle esperienze. Da un punto di vista antropologico, la sensibilità è sempre esistita, e molto probabilmente continuerà a esistere, ma appannaggio di sempre meno persone, in un mondo che si sta imbarbarendo in nome di uno scientismo disumano e di un efficientismo fine a sé stesso, è oggi una marcia spietata della modernità che sta svuotando la sensibilità dal cuore della gente. Dirò di più, oggi chi ha sensibilità viene percepito come pazzo dalla popolazione, da questa popolazione di zombies.”
«Ha ragione, quanto mai è vero quello che sta dicendo!», rifletté John Smith.
“Maurizio!”, si frappose nella conversazione il Molteni.
“Sì!?”
“La heatmap mi dà delle evidenze su miglioramenti possibili relativamente ai frames finali dello spot, mi aspettavo un punto di calore più evidente sullo slogan e sul brand, ma non è così, probabilmente aprendosi l’inquadratura su una visione d’insieme dello stadio, lo sguardo dello spettatore viene distratto su dettagli di secondaria importanza, penso che suggerirò di sfumare la luce fino ad un fondino tinta unita lasciando quindi tutta la scena al logo del brand e allo slogan.”
“Se posso dire una cosa…”, fece il giovane intervistato.
“Devi!”, ribatté il Molteni.
“… Chiuderei con un jingle, basta di un paio di secondi, magari non solo strumentale, ma con altresì un coro che segua l’armonia. Bastano poche note.”
“Sì, mi sembra un’ottima osservazione.”, annuì il designer.

***

La sessione proseguì per un’ulteriore mezzora abbondante, sotto gli occhi rapiti degli ospiti si svolse un card sorting, un test multivariato, e un eye tracking ambientale, dopodiché tornarono le luci in sala, e riapparvero nella sala della proiezione i due padroni di casa, con le mani in tasca, a ricevere gli applausi e i complimenti dei tre.
“Signor Livingstone, mi lasci un suo recapito email, le farò avere il materiale su WeTransfer, o se preferisce su cloud.”
“Su Cloud andrà very well, grazzie, lo soutoporò a l’attention del chief executive officer di Naikii, Leslie Richardson. Mi sono permesso di farre dele riprese video with my smartphone, of laboratorio, e dello test, spero not a problem. Tornerò presto a farvi visita, è un promessa.”
“Ne siamo certi!”, ribatté il Molteni senza falsa modestia, e proseguendo: “Allora, arrivederci!”
“Grazie! Arrivederci!”, esclamarono all’unisono Ludovico, Fred e John, ormai sull’uscio.

Ripercorrendo il corridoio verso l’ascensore, Fred Livingstone rivolse uno sguardo compiaciuto verso il nostro eroe, il quale passandosi una mano fra i capelli disse: “Very impressive! Viva la creattivittà italiana!”, rivolgendosi a Ludovico Macchi.
“E’ l’unica cosa che può salvarci.”, rispose serio il Macchi, guardando l’orizzonte seguirlo dalle finestre. (musica di chiusura del capitolo II)

 

11 giugno 2020 Gilberto Marciano

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