È da tempo che vi parliamo di neuromarketing, anche in rapporto ai limiti degli strumenti tradizionali di indagine del mercato. Crediamo che per avere una panoramica più chiara e corretta dell’argomento sia indispensabile affrontare una (sana) riflessione riguardo alla sua efficacia.
Chi per la prima volta si avvicina al mondo del neuromarketing, si porrà probabilmente questa domanda:
Il neuromarketing è davvero efficace?
Se la risposta fosse realmente secca (sì o no), probabilmente questa domanda non avrebbe ragione di essere formulata. Purtroppo, la risposta non può essere secca per il semplice fatto che sottende un’enorme quantità di considerazioni implicite, come ad esempio: “è efficace per cosa?”. Anche il righello è uno strumento di misura estremamente efficace, ma vi invito a provare a misurare i litri d’acqua in una botte con un righello: mission impossible!
Nei confronti del nuovo c’è sempre una naturale forma di diffidenza. È un meccanismo di difesa che quotidianamente mettiamo in atto per evitare di incorrere in rischi inutili. Ma dopo i primi punti di contatto, il diverso diventa un elemento del nostro mondo, un elemento che iniziamo a conoscere, ad inquadrare e a non temere più. Superato il periodo d’incubazione, svanisce lentamente il pregiudizio nei confronti di ciò che è diverso e subentra un meccanismo critico molto più efficace.
Come tutte le grandi novità che hanno cambiato la storia della nostra società, anche il neuromarketing sta ancora vivendo una fase di incubazione. Recentemente, grossi sforzi sono stati messi in atto per superare questa fase. Ad esempio, nel 2011 l’ARF – Advertising Research Foundation -associazione di pubblicitari nata nel 1936 con la mission di migliorare le pratiche pubblicitarie e creare un marketing più efficace – ha intrapreso il primo progetto per unificare la disciplina del neuromarketing ed elaborare degli standard per permettere una fruizione più consapevole: il “NeuroStandards Collaboration Project”.
Nonostante queste pregevoli iniziative, molto resta ancora da fare. Ad esempio, un ostacolo per le aziende desiderose di cimentarsi autonomamente nel neuromarketing è rappresentato dai costi non solo delle strumentazioni biometriche, ma soprattutto della formazione specialistica in materia. Il fatto che, ad oggi, la maggior parte dei responsabili di marketing non abbia purtroppo una formazione solida in materia di neuromarketing, ci deve far riflettere.
Altro aspetto importante è la scarsità di pubblicazioni scientifiche prodotte dalle aziende private nell’ambito neuromarketing. Attenzione: non significa che non ci siano casi di studio eccellenti a riguardo (abbiamo già visto quello di Coca-Cola vs. Pepsi), ma molte imprese sono ancora restìe nel divulgare i risultati dei propri studi. Una cautela più che comprensibile: dietro questi risultati si celano spesso strategie di marketing che nessuna azienda avrebbe fretta di condividere con i propri competitor.
La carenza di studi e la scarsa risonanza mediatica contribuiscono quindi ad alimentare i dubbi e le perplessità degli scettici. C’è chi sostiene ad esempio che il neuromarketing potrebbe rappresentare una minaccia per l’autonomia dei consumatori. La possibilità di cogliere i processi cognitivi sottostanti i comportamenti d’acquisto e le reazioni implicite derivanti potrebbe – secondo alcuni critici – essere utilizzato in modo improprio, trasformando i consumatori in inconsapevoli “robot per lo shopping”.
Taluni hanno anche avanzato critiche riguardo l’intrusione di queste applicazioni nella società. La “Commercial Alert”, ad esempio, ha inviato al Congresso Americano una petizione per porre fine al neuromarketing, sostenendo che questa disciplina ha come obiettivo quello di “soggiogare la mente e usarla per il profitto commerciale”. Il timore, in poche parole, è che il neuromarketing possa essere utilizzato per manipolare i consumatori, inducendoli all’acquisto di merci contro la loro volontà razionale.
Al di là del fatto che la medesima critica potrebbe essere rivolta a qualsiasi tecnica di marketing, l’esperienza diretta ci dice in realtà che conoscere meglio il consumatore aiuta inevitabilmente ad accrescere la qualità di ciò che viene prodotto. Come sostiene Raymond Burke, esperto di neuromarketing di fama internazionale, una maggior consapevolezza di ciò che vuole, piace, soddisfa il consumatore, ci consente di migliorare il prodotto che gli offriamo.
Smarchiamo infine un’ultima questione relativa alla scientificità del neuromarketing. Le indagini di neuromarketing, per essere affidabili, devono assolutamente rispettare le linee guida che si applicano a una ricerca scientifica. La selezione e l’ampiezza del campione, la solidità del disegno sperimentale e l’affidabilità degli strumenti da utilizzare rappresentano solo alcuni degli elementi da considerare per poter costituire una solida base per trarre delle conclusioni affidabili.
Possiamo avere a disposizione uno strumento estremamente preciso e affidabile, come il nostro righello, ma se non sappiamo utilizzarlo in modo corretto rischiamo di arrivare a conclusioni errate. La ricerca in ambito neuromarketing si avvale di numerosi strumenti che ci permettono, se utilizzati a dovere, di ottenere informazioni estremamente utili. Sono strumenti che necessitano di conoscenza ed esperienza. Servono anni di studio, servono metodo e continui aggiornamenti.
Il nostro team è fatto di esperti che rispondono a queste esigenze: vista la necessità di precisi requisiti, sono il rigore scientifico e un approccio capace di integrare competenze e prospettive complementari a rendere il neuromarketing uno dei più efficaci strumenti per indagare il mercato.