Il marketing come ecologia del valore

Il termine ecologia è sempre più utilizzato da accademici, esperti e consulenti di strategia e di marketing nonché da manager d’impresa al posto di mercato. Obiettivo di questo contributo è mettere in luce le ragioni che sono alla base di questo cambiamento/evoluzione nel linguaggio manageriale e quali le principali implicazioni di marketing.
La scelta di fare riferimento all’ecologia piuttosto che al mercato è segnaletica, a mio modo di vedere, di due cambiamenti (epocali). Il primo, già piuttosto consolidato, è il crescente orientamento alla gestione della relazione piuttosto che della transazione. Una transazione, com’è noto, avviene tra un venditore ed un compratore. L’identità di queste due persone e la natura della relazione tra loro è irrilevante ai fini dello scambio. In questo quadro di riferimento il compito primario del marketing è assicurare il corretto posizionamento del prodotto nel mercato. Questo significa costruire una offerta di mercato adatta a colpire un predeterminato segmento di mercato detto target. Il passaggio ad una logica relazionale implica che non è tanto importante vendere un dato prodotto ad un dato segmento target, ma instaurare, gestire e consolidare una relazione con il cliente e/o con un qualsiasi altro partner dell’impresa (i dipendenti, i fornitori, la proprietà etc.). Ne consegue che il successo dell’impresa dipende sempre meno dalle sue capacità di spinta (push) e sempre più dalle sue capacità di ascolto e coinvolgimento. L’impresa non pensa più un prodotto per un dato cliente, ma si mette a disposizione del cliente per co-creare il prodotto/servizio – oggi si dice l’esperienza – che desidera.

Questo determina un ripensamento complessivo delle logiche aziendali. Il prodotto non deve essere più pensato come una pacchetto chiuso, pronto all’uso, da mettere su un qualche scaffale, ma come una piattaforma capace di coinvolgere l’utente – non più cliente – nella creazione di valore. Gli esempi, a questo proposito, sono molteplici. Wikipedia, ad esempio, ha coinvolto l’utente nella produzione di contenuti. YouTube ha sviluppato una piattaforma di intrattenimento video dove tutti intrattengono tutti. Il successo della Wii è in larga parte spiegato dall’aver trasformato il videogioco da passivo in attivo e da individuale a collettivo e quindi relazionale.

Reti complesse, ecologie e hub

La centralità della relazione come base per la creazione del valore non è sufficiente, però, a spiegare la necessità di una metafora ecologica. Questa è invece giustificata dalla crescente importanza rivestita dalle reti complesse. Cos’è una rete complessa? “Tecnicamente” parlando è una rete che oltre ad avere tantissimi nodi, ha una distribuzione del grado di connessione degli stessi con le code alte. Questo significa che le connessioni tra i nodi non sono distribuite in modo casuale, ma secondo una legge di potenza. Semplificando al massimo ci sono pochi nodi, detti hub, che hanno un numero elevatissimo  di connessioni e tantissimi nodi che hanno, al contrario, un basso grado di connessione (poche connessioni). L’esempio tipico di una rete complessa è Internet, dove solo un numero ristretto di nodi ha un elevatissimo grado di connettività mentre la maggioranza ha un numero molto contenuto di link.

Perchè quando siamo in presenza di una rete complessa ha senso ragionare in termini ecologici? La risposta più immediata, ma anche poco utile ai nostri scopi, è che le ecologie naturali sono anch’esse reti complesse. La rete alimentare di chi mangia chi, infatti, dà luogo ad una rete complessa. Gli animali che sono più in alto nella catena alimentare sono quelli che hanno il maggior numero di connessioni. Questo implica che, e qui arriviamo agli elementi di nostro interesse, se scompare uno di questi animali – ad esempio il pescecane – tutta la rete degli altri animali – di grado inferiore – ad esso connesso è a rischio estinzione. Non solo! Il grado di biodiversità di un ecosistema dipende da quanto questi nodi/animali sono in grado di garantire la compatibilità/co-esistenza tra specie diverse.

Applichiamo lo stesso ragionamento ad Internet. Supponiamo che domani non ci siano più motori di ricerca. Il valore di tutti i contenuti disponibili sarebbe azzerato perché difficilmente accessibili. Non solo! La capacità di espandersi della rete subirebbe un tracollo. Nessuno, infatti, avrebbe un incentivo a pubblicare dei contenuti in Rete se difficilmente reperibili. La varietà culturale subirebbe anch’essa una tracollo. La facilità di ricerca e accessibilità dei contenuti ha fatto sì che documenti che non sarebbero mai stati scritti siano stati prodotti e che generi (nicchie) musicali che rischiavano l’estinzione abbiano trovato nuova linfa potendo contare su di un palcoscenico che non è più solo locale.
Ragionare in termini ecologici ci insegna, perciò, che ci sono dei nodi che sono più importanti di altri, che questi nodi generano valore nella misura in cui aiutano altri a generare valore e, per i pochi fortunati che riescono a raggiungere una posizione di hub, che essere troppo ingordi nel lungo periodo significa mangiare se stessi. Pensate se Google cominciasse a chiedere a ciascuno di noi di pagare una fee per ogni ricerca fatta o per inserire il nostro indirizzo Web nei suo indici. Una tale strategia si tradurrebbe in una rapida contrazione della propria redditività. È per questa stessa ragione che molti sostengono che la strategia espansiva (predatoria?) di Google porterà nel lungo periodo all’auto-distruzione. Lo stesso è avvenuto in passato per altri giganti come IBM e Microsoft, che hanno progressivamente perso o stanno progressivamente perdendo la propria capacità di controllo sul mercato. Lo stesso è successo ai dinosauri, che essendosi troppo adattati al proprio ambiente si sono estinti non appena questo è cambiato. In una prospettiva ecologica perciò dimensione ed espansione per vie interne non sono sinonimo di sostenibilità. Questa diversamente risiede nella capacità di estendere la propria rete di relazione, apprendere e co-evolvere con essa.

L’assenza di soglie critiche: effetti e implicazioni

Ma per chi non ha una posizione di hub quale utilità ha adottare una logica ecologica? La risposta a questa domanda risiede nelle proprietà diffusive di queste reti. Le reti complesse si caratterizzano per l’assenza di soglie critiche. In biologia il concetto di soglia critica definisce il numero di contagiati – detto anche massa critica – oltre cui la diffusione di un virus subisce una accelerazione tale da trasformarsi in epidemia. La diffusione di un virus, perciò, dipende da due variabile fondamentali: il tasso di contagio e la soglia critica.
Il primo definisce la capacità intrinseca del virus di diffondersi mentre la seconda la capacità della rete di contrastarne la diffusione. Nelle reti complesse l’elevata connettività degli hub fa sì che una volta che uno di essi è colpito la rete è colpita. Besti pensare alle molteplici epidemie di virus informatici che hanno colpito la Rete nell’ultimo decennio.
Un secondo aspetto, che è anch’esso conseguenza della mancanza di una soglia critica, è che il ciclo di vita dei virus nelle reti complesse risulta allungato. È sufficiente infatti che resti dormiente all’interno di una nicchia perché, una volta riattivato, trovi nuovo vigore nella rete delle connessioni tra gli hub. Anche in questo caso la storia di molti virus informatici insegna. Il riconoscimento dell’importanza degli hub in queste reti anche in questo caso ci aiuta a limitare i danni. Per prevenire questi rischi infatti è necessario alzare le difese attorno ad essi.

Le reti complesse e la reputazione online

Conoscere le proprietà diffusive di queste reti, ribaltando i termini, è molto importante per costruire la propria strategia di posizionamento sul Web. È evidente infatti che un virus può essere paragonato ad un bit di informazione o un messaggio. Ne consegue che le proprietà diffusive di queste reti possono essere utilizzate per migliorare il proprio posizionamento ed accessibilità facendo leva sugli hub. Non solo! Sviluppando un messaggio altamente contagioso è possibile aumentare la propria brand awareness a basso costo, quindi compatibilmente anche con dimensioni di impresa molto più piccole a quelle che sino ad oggi hanno avuto accesso ai media. Il rovescio della medaglia è che le stesse proprietà sono disponibili e possono essere utilizzate anche da chi parla male di noi con cognizione di causa o meno. Le imprese sono quindi chiamate ad investire in sistemi di monitoraggio della propria reputazione in Internet. In entrambi i casi però non si può prescindere da una conoscenza ed una costante mappatura della rete dei contenuti rilevanti/sensibili per una certa impresa. Chi sono gli hub? Da chi si informano? E chi informano?

Sono solo alcuni dei quesiti che meriterebbero un approfondimento al fine di definire e condividere delle best practice comuni utili ad aumentare la capacità delle imprese – anche più piccole – di competere in Rete.

3 ottobre 2008 Andrea Ganzaroli

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TAG: digital marketing