“La sapienza è figliola della esperienza”
Leonardo Da Vinci
user experience design…
“I invented the term because I thought human interface and usability were too narrow. I wanted to cover all aspects of the person’s experience with the system including industrial design graphics, the interface, the physical interaction and the manual. Since then the term has spread widely, so much so that it is starting to lose its meaning.”Donald Norman
Indice:
UX suona come qualcosa di futuribile o comunque molto moderno (un rapper emergente, un preparato medico innovativo o una sigla sulla carlinga di un’astronave in un film di fantascienza), ma la verità è che è proprio quello che stai vivendo in questo momento, live, in tempo reale (sì, proprio ora mentre stai navigando in questo sito e leggendo questo articolo, ma non preoccuparti la tua vita è costituita in fondo da una sommatoria di UX). In parole povere, UX significa User Experience, esperienza utente, e fa riferimento al vissuto che una persona ha quando interagisce con un sistema (qui, il sistema diciamo che si riferisce a siti web, cellulari o computer).
User experience, esperienza utente, customer experience, esperienza del consumatore, sono espressioni in cui ci imbattiamo spesso, ma cos’è l’esperienza di cui parliamo quando noi diciamo di occuparci di migliorarne la qualità? Quali aspetti registriamo o prendiamo in considerazione?
Beh, forse per cominciare sarebbe meglio chiamarla People Experience e interessarmi, occuparmi e preoccuparmi della qualità dell’esperienza delle persone in tutti i punti di contatto, con artefatti o interfacce (per le definizioni puoi fare riferimento a questa pagina sull’approccio che portiamo avanti), è ciò di cui sono appassionato e che mi ha fatto entrare in TSW.
PX potrebbe dunque stare per People Experience e non per:
P starebbe per l’inglese People, che non si coniuga al singolare perché è la forma plurale di person e non vuol dire solo gente, ma deriva da populus latino e fa pensare ad un insieme, un corpo, organizzato di soggetti, una collettività di individui uniti in un determinato contesto da cultura, valori e credenze.
X sarebbe l’abbreviazione di eXperience, esperienza in inglese, la stessa X usata in UX, che sta, come dicevamo, per User Experience.
Ma la X potrebbe anche essere quella che identifica nella mappa il punto dove scavare per trovare il tesoro nascosto nell’isola dei pirati.
Il tesoro è nascosto sotto la X quando siamo giovani cercatori di tesori, per i nostri ricercatori il tesoro sono i portati delle persone, è quindi la X stessa, l’esperienza appunto.
Il termine user experience è stato portato alla ribalta da Donald Norman (padre della disciplina) alla metà degli anni novanta, dopo che già una decina di anni prima aveva cominciato ad occuparsi di user-centered design e il successo del termine e la rivoluzione di pensiero che ha generato lo hanno portato all’inizio degli anni duemila a parlare, o interessarsi nell’evoluzione che il suo pensiero ha avuto negli anni, del coinvolgimento emotivo che il design genera al di là dell’ergonomia e dell’usabilità.
La UX viene definita da Norman come l’insieme di tutti quegli aspetti emozionali, psicologici e fisici che si verificano prima, durante e dopo l’interazione. Se prima che venisse coniato il termine si parlava solo di Human-Computer Interaction o di usabilità e ci si concentrava sull’interazione tra un determinato prodotto e l’utente, oggi il focus è sull’esperienza, per questo grazie al prof. Norman si parla di (User) Experience Design.
Eccolo qui in persona che ci racconta come il termine viene usato, a volte, impropriamente o in modo riduttivo.
Progettare pensando all’utente finale significa progettare per far vivere esperienze ed emozioni positive, oltre che anticipare e soddisfare determinati bisogni. Lavorare per la User Experience significa avere a che fare con le esperienze personali di qualunque utente (è la persona considerata nel suo insieme, ma letta nell’atto di vivere un’esperienza) interagisca con un prodotto o un servizio.
Il termine user experience mi piace perché parla di esperienza, ma può anche fuorviare perché purtroppo è limitativo considerare la persona solo come un utente. Peggio che mai se parliamo di consumer experience allora… e che differenza c’è alla fine?
Chi è il customer?
Il termine deriva dall’inglese del 15mo secolo custom che deriva dal latino medievale custumarius che a sua volta viene dal tardo latino consuetudinarius derivato dal latino consuetudo che vuol dire: pratica abituale. Non mi si venga poi a dire che non è un caso di Nomen omen (locuzione latina che significa “il destino nel nome” e deriva dalla credenza dei Romani che nel nome della persona fosse indicato il suo destino) se poi i consumatori non sono al centro, ma sono dati per scontati nelle pratiche abituali dei manager!
Proviamo ora a vedere a cosa si riferisce la customer experience e cosa vuol dire CX?
CX non si riferisce alla Citroën CX, l’autovettura di alta gamma prodotta dalla casa francese dal 1974 al 1991 che doveva il suo nome alle marcate caratteristiche aerodinamiche. Il coefficiente di penetrazione aerodinamica, noto proprio con la sigla CX, misura la resistenza aerodinamica di un corpo in moto in un fluido (risultò basso nella ammiraglia francese, era infatti pari a 0.375, un valore notevole nella prima metà degli anni ‘70).
Nel caso delle auto se accettiamo una semplificazione: minore è il CX minore è lo sforzo che l’auto dovrà compiere per muoversi, nel caso delle esperienze che è quello che ci interessa qui, la CX a sua volta è direttamente proporzionale, ovvero migliore sarà l’esperienza del consumatore (che noi preferiamo chiamare persona), migliore sarà la relazione con la marca o il prodotto, o per restare in metafora, minore sarà lo sforzo che utente, o consumatore che dir si voglia, deve compiere nel relazionarsi con interfacce o artefatti dell’azienda.
Customer experience (CX) è un termine comunemente usato per definire la user experience (UX) per lunghi periodi di tempo. Ovvero in questo senso la customer experience è relativa ad una relazione nel tempo ed è meno puntuale della user experience anche se nella definizione originale quest’ultima, ovvero la UX, doveva comprendere tutti gli aspetti dell’interazione di una persona con un’azienda, i suoi servizi e i suoi prodotti.
In origine infatti il termine UX intendeva descrivere la totalità delle interazioni che gli utenti hanno con un’organizzazione, ma poiché è stato proposto in un’epoca, ma forse sarebbe meglio dire periodo (vedi il paragrafo seguente sul concetto di epoca), in cui i computer erano la principale forma di interazione digitale, alcuni hanno iniziato ad assegnargli un’interpretazione limitata: quella associata ad una interazione, in particolar modo quella mediata da interfacce digitali, a differenza della relazione più ampia e lunga quanto la vita tra il cliente e l’azienda. Così per converso anche se era un termine limitativo o circoscritto, come abbiamo visto, il termine customer experience (CX) è stato usato per descrivere la totalità delle interazioni che un utente ha con un’organizzazione nel tempo.
Il nostro ‘epoca’, che più o meno significa periodo storico, nasce dall’espressione greca εποχή αστέρων ovvero arresto degli astri, e si riferisce alla posizione delle stelle che contraddistingue quell’era, quel momento o periodo storico. Nell’epoca, odierna o passata, le stelle non si arrestano o non si sono mai arrestate, ma qualcosa è bloccato o sospeso; in filosofia il giudizio. Per questo parliamo di età della pietra o di epoca classica, perché abbiamo l’idea che in qualche modo ci fosse un cielo fisso di valori, di dinamiche, anche se sappiamo bene che non è così e indulgiamo nella generalizzazione che ci permette di contenere qualcosa di più grande di noi come il mutare della storia.
In quest’epoca digitale, tutto è piuttosto baumanianamente fluido e si sciolgono le barriere tra specialistico e umanistico, non per volontà intellettuale, ma per evoluzione culturale. Per questo nemmeno il termine epoca è più adeguato a contraddistinguere i nostri tempi, ma servono modelli o riferimenti diversi.
Il momento in cui si è definita la user experience vedeva il prevalere della esperienza digitale su computer e questo molto probabilmente ha determinato un utilizzo improprio o riduttivo del quale lo stesso prof. Norman si lamenta.
Così come abbiamo detto la CX è divenuta sua malgrado un’espressione che copre una sfera più ampia e dilatata nel tempo.
L’esperienza del cliente potremmo definirla quindi come il prodotto delle interazioni tra un’organizzazione e un cliente per la durata della relazione, le organizzazioni nel commercio però si chiamano più spesso marchi e allora: l’esperienza del cliente è definibile come le percezioni – sia consce che subconsce – dei clienti del loro rapporto con un marchio.
Se si considera la relazione tra una persona e un’azienda nella vita di quella persona, è possibile definire l’esperienza dell’utente a tre diversi livelli:
E su questo ultimo punto verte la definizione più comune di customer experience ed è a questo livello relazionale che ci riferiamo noi quando parliamo di migliorare le esperienze con l’ascolto. Questo è un esempio di customer journey map tratto da NNgroup.com:
L’esperienza del cliente implica quindi il coinvolgimento del soggetto (che noi preferiamo chiamare persona) a diversi livelli: razionale, emotivo, sensoriale e fisico.
Si riscontrano tre elementi: il percorso del cliente, più comunemente chiamato customer journey (contraddistinto classicamente da diciamo tre momenti: Exposure, Activation e appunto Experience), i punti di contatto del marchio con cui il cliente interagisce, detti anche touchpoint, e gli ambienti che il cliente sperimenta (incluso l’ambiente digitale) durante la sua esperienza, in alcune merceologie il più rilevante ancor oggi può essere considerato comunque il retail.
Una buona esperienza del cliente significa che, l’esperienza dell’individuo in tutti i punti di contatto corrisponde alle sue aspettative e ne va oltre. I clienti rispondono in modo diverso al contatto diretto e indiretto con un’azienda o con un marchio. Il contatto diretto di solito si verifica quando i canali sono quelli del brand: negozi, cataloghi, siti web, newsletter e direct mail, e l’acquisto o l’utilizzo è attivato o iniziato dal cliente. Il contatto indiretto comporta spesso il passaggio attraverso media non proprietari del marchio quali: pubblicità, notizie, raccomandazioni (o critiche) reperibili sui social media.
L’esperienza del cliente comprende ogni aspetto dell’offerta di un’azienda: il prezzo, la qualità dell’assistenza ai clienti, ma anche la pubblicità, il packaging, le caratteristiche di prodotti/servizi, la facilità d’uso e l’affidabilità della marca, le recensioni o il passaparola, il così detto word-of-mouth o WOM.
Molto deve essere considerato all’interno dell’esperienza del cliente, e molto esula dal momento della decisione d’acquisto sulla quale troppo spesso il marketing si concentra perché vede il cliente solo come consumatore.
Anche se ci scagliamo contro l’inflazione del vocabolario e creiamo nuovi nomi per le cose vecchie, non possiamo combattere il modo in cui il linguaggio si evolve. Sia che utilizzi il termine più recente “customer experience” o che preferisca quello precedente di “user experience”, il punto da ricordare è: ci sono più livelli di esperienza e molti punti di contatto, ognuno è ugualmente importante nel fornire una buona esperienza agli utenti che sono il centro degli approcci consumer centric perché soggetti di esperienza.
Ma non avevamo detto che gli ‘utenti’ non esistono? Beh, non in quella forma riduzionista appunto e ora proviamo ad allargare anche l’accezione del termine ‘uso’ e le aspettative che anche questo comporta.
Abbiamo parlato del soggetto di quella X, che sia un U o C, ma ora preoccupiamoci del significato di quella X e forse un’altra definizione comune ci può venire incontro. La user experience ha infatti un altro sinonimo: l’esperienza d’uso.
In Filosofia il termine esperienza (o empirìa) si riferisce a diversi significati:
L’ISO 9241-210 definisce l’esperienza d’uso come “Le percezioni e le reazioni di un utente che derivano dall’uso o dall’aspettativa d’uso di un prodotto, sistema o servizio”. L’esperienza d’uso è soggettiva e si concentra sull’atto dell’utilizzo.
Le note aggiuntive di questa definizione spiegano che l’esperienza d’uso comprende tutte le emozioni dell’utente, le sue convinzioni, preferenze, reazioni psicologiche e fisiche, comportamenti e azioni che si verificano prima, durante e dopo l’utilizzo; in queste stesse note vengono elencati anche tre fattori che influenzano l’esperienza d’uso: il sistema, l’utente e il contesto d’utilizzo.
Viene quindi messa in evidenza la soggettività dell’esperienza prodotta dall’uso di un prodotto/servizio, ma anche dalla previsione del suo utilizzo. Questo secondo aspetto (aspettativa d’uso) separa nettamente la user experience dalla qualità in uso definita nell’ISO/IEC 9126 e comprende dimensioni particolarmente rilevanti nella fase di selezione e acquisto di una nuova tecnologia. La dimensione temporale infatti esplode quando l’oggetto di analisi viene spostato dall’utilizzo (come evento) all’utente: la user experience si emancipa dall’uso contingente e abbraccia l’anticipazione, la progettazione, il ricordo di tale utilizzo, il desiderio dell’esperienza di interazione, la proiezione di tale esperienza sui processi di costruzione dell’identità.
La terza nota dello standard dichiara che l’usabilità influisce su alcuni aspetti dell’esperienza d’uso, per esempio “i criteri di usabilità possono essere usati per valutare aspetti dell’esperienza d’uso”. Sfortunatamente, lo standard non chiarisce ulteriormente la relazione che intercorre tra l’esperienza d’uso e l’usabilità.
In parte i due concetti si sovrappongono, si veda a proposito il paragrafo successivo sulla prospettiva dell’utente al centro nell’user experience design, ma semplificando possiamo dire che: l’usabilità corrisponde ai soli aspetti pragmatici (la capacità di svolgere un compito con efficienza, efficacia e soddisfazione), mentre l’esperienza d’uso include anche quelli edonistici (per un approfondimento si veda questo mio precedente contributo sull’usabilità e sui test che coinvolgono le persone per valutare e migliorare le esperienze che possono e devono diventare semplici, naturali e appaganti).
Per UX, ricordiamolo, s’intende ciò che una persona prova quando utilizza un prodotto, un sistema o un servizio. L’esperienza d’uso concerne gli aspetti esperienziali, affettivi, l’attribuzione di senso e di valore collegati al possesso di un prodotto e all’interazione con esso, ma include anche le percezioni personali su aspetti quali l’utilità, la semplicità d’utilizzo e l’efficienza del sistema.
L’esperienza d’uso ha una natura soggettiva perché riguarda i pensieri e le sensazioni di un individuo nei confronti di un sistema; inoltre è dinamica dal momento che si modifica nel tempo al variare delle circostanze.
Il termine user experience design si è diffuso negli ultimi anni in molti contesti e diversi ambiti disciplinari; tale rapida adozione non è stata però accompagnata da una precisa definizione del concetto, cui vengono pertanto attribuiti significati parzialmente differenti, tutti però accomunati dall’ambizione di superare il concetto di usabilità e di studiare l’esperienza di interazione con le interfacce mediali nella sua totalità, allargando comunque il numero di dimensioni prese in analisi.
Ci potrebbe venire in soccorso la cultura umanistica, già chiamata in causa precedentemente, e infatti: l’esperienza significativa in filosofia della scienza è quella che comporta la revisione o l’annullamento di teorie scientifiche precedenti (come avvenne con la rivoluzione galileiana, che contribuì al passaggio dalla teoria tolemaica a quella copernicana o più recentemente con la scoperta della radioattività ad opera dei coniugi Marie e Pierre Curie, che fece crollare la concezione dell’atomo come un’unità inscindibile). Per quel che riguarda il tema della user experience, un’esperienza utente significativa è forse un concetto un po’ deflazionato, non prevede per forza un cambio di paradigma o una revisione radicale, ma di certo mette in discussione l’esperienza avuta sinora, e troppo spesso considerata uno standard, con un bene o un servizio quando ne esperiamo una nuova e questa, magari ripetutamente (ma un paio di volte ormai bastano) ci soddisfa, semplifica la vita e diviene naturale. Questa è un’esperienza utente significativa e cambia davvero il punto di vista e sgombra il campo creando un benchmark o un modello di esperienza nuovo (se vogliamo paradigmatico) rispetto al quale l’esperienza in particolare, ma anche il modello o paradigma dell’interazione in generale, del soggetto si modifica (basta ripercorrere la parabola di Blockbuster, Nokia, Kodak, Toys R Us, ecc.).
Si parla di uso, ma sappiamo che le esperienze sono diverse e sono il complesso dei vissuti, ricordi, pensieri, gusti, ecc. che una persona ha o porta con sé (ogni giorno, ogni ora, ovunque). Abbiamo sostituito la fiducia nel meraviglioso lavoro della Provvidenza con le aspettative nei confronti della Tecnologia. Le persone sarebbero quelle a dover essere valorizzate e gli strumenti vengono concepiti per essere utilizzati.
Dovremmo quindi dar valore agli esseri umani e usare la tecnologia, sfortunatamente diamo valore alla tecnologia e usiamo gli esseri umani.
Abbiamo più volte usato il termine interfaccia e sin dall’inizio abbiamo parlato di ambiguità, apparentemente terminologiche, a volte concettuali, nell’uso comune, proviamo ora a scioglierne un’altra.
Questa è UI o UX?
La UX si differenzia dalla UI, che sta per User Interface e se specialmente è legata al termine design è un sottoinsieme dell’UX design, quello in particolare che cura gli aspetti visual e di presentazione del prodotto, o del brand, del servizio, dell’azienda (UI User Interface e UX User Experience, per ricordarci che, come U negli acronimi, l’utente viene prima comunque e che I e X = 1 e 10, come uno e dieci scritti coi numeri romani, per dire che la seconda è più grande della prima e di fatto la contiene, ovvero l’esperienza contiene l’interfaccia).
L’interfaccia utente (UI) è qualsiasi cosa con cui un utente possa interagire per utilizzare un prodotto o servizio. Se ci limitiamo al digitale, include: schermi e touchscreen, tastiere, colori, suoni e persino luci. Per comprendere l’evoluzione dell’interfaccia utente, tuttavia, è utile imparare un po’ di più sulla sua storia.
Al livello più elementare, l’interfaccia utente, UI, è composta da tutti gli elementi, è importante ricordarlo non solo visivi, che consentono a qualcuno di interagire con un prodotto o un servizio. UX, d’altra parte, è ciò che l’individuo coglie dall’intera esperienza di interazione con quel prodotto o servizio.
Don Norman e Jakob Nielsen hanno esplicitato bene il concetto quando hanno scritto:
“È importante distinguere l’esperienza utente totale dall’interfaccia utente, anche se l’interfaccia utente è ovviamente una parte estremamente importante del progetto. Ad esempio, considera un sito web con recensioni di film. Anche se l’interfaccia utente per la ricerca di un film è perfetta, la UX sarà scarsa per un utente che vuole informazioni su una piccola produzione indipendente se il database sottostante contiene solo film delle major.”
User Experience Design (UXD o UED) è il processo per migliorare la soddisfazione degli utenti rispetto ad un prodotto o servizio migliorando l’usabilità, l’accessibilità e il piacere forniti nell’interazione con il prodotto o servizio.
Laddove UX Design è un campo più analitico e tecnico, UI Design è più vicino a ciò che chiamiamo design grafico, anche se le responsabilità e le interconnessioni sono un po’ più complesse e articolate e l’interfaccia non è una questione da lasciare solo in mano ai grafici. Accade troppo spesso che un progettista UX si occupi degli aspetti concettuali del processo di progettazione, lasciando che il progettista dell’interfaccia utente si concentri sugli elementi più tangibili.
Per sintetizzare con una metafora: la UI è il ponte che ci porta dove vogliamo andare, UX è la sensazione che proviamo quando arriviamo. I designer che sapranno essere user, immaginarsi come tali o quelli che si confronteranno con gli user, ovvero le persone, progetteranno UX e UI migliori.
Chi lavora sulla UX si concentra sull’user journey per risolvere un problema (ahimè troppo spesso) o migliorare l’esperienza integrale di un sistema (ahimè ancora troppo di rado, nonostante vada di moda), il lavoro sull’interfaccia utente è spesso focalizzato su come le superfici di un prodotto appaiono e funzionano.
Sviluppare un’esperienza utente sul piano della soddisfazione delle persone non è responsabilità di una singola persona o di un team, ma è o dovrebbe essere la vision di un’azienda.
Le aziende producono per, e sono al servizio delle, persone, è sempre stato così, solo recentemente queste sono diventati consumatori ovvero customer (si veda in proposito la pagina relativa al valore della riconnessione con le persone nella sezione Con le Persone del nostro sito), e il customer service o servizio clienti, comunque è bene ricordarlo, è un atteggiamento (volendo una visone) non un dipartimento, un servizio o tantomeno un job title.
La ricerca dell’utente è un passaggio chiave nel processo di progettazione di UX e assume molte forme. Christopher Rohrer, che scrive per il Nielsen Norman Group, spiega gli stili di ricerca degli utenti che comprendono una combinazione di quattro elementi:
Le direzioni di ricerca comportamentale e attitudinale, quantitativa e qualitativa coesistono in una relazione complementare a seconda della problematica: la quantità e la qualità si uniscono nel modello The Sixth W per fornire una visione d’insieme completa e raccogliere tutti i feedback dai partecipanti necessari per comprendere l’esperienza vissuta.
Con i test che con i ricercatori di TSW conduciamo in laboratorio o sul campo, analizziamo il comportamento e le aspettative delle persone attraverso i diversi punti di contatto nel loro percorso relazionale con le aziende e i loro prodotti o servizi. L’approccio dei metodi misti integra test esperienziali con modelli di analisi quantitativa, al fine di ottenere una visione completa e obiettiva.
Il metodo si compone di protocolli di ricerca qualitativi e dell’utilizzo di neurotecnologie o più correttamente strumentazioni bio-metriche (quali eye tracker, sensori biometrici e sensori di stimolo e monitoraggio della cosiddetta brain activity) e di strumenti di analisi che permettano di rilevare dati fisiologici attentivi, emotivi, cognitivi, di interazione e comportamentali in relazione a interfacce analogiche o digitali.
Questo approccio potrebbe essere definito neuroscientifico o di neuromarketing. Preferiamo parlare di psicofisiologia e di neuroscienze applicate nello studio dei consumatori e nell’analisi dell’esperienza degli utenti, che noi chiamiamo persone.
Il neuromarketing se inteso come disciplina, o para-disciplina (si veda il mio precedente contributo in merito) e non come attività di user testing, come sfida ai limiti di comprensione del comportamento e dei vissuti, può fare il paio e lavorare in sinergia con un concetto più esteso di user experience, più vicino al human-centred desing che all’user testing, che può nonostante le intenzioni a volte sfociare in una datificazione, imperante direi, o reificazione degli utenti.
Comprendere veramente i sentimenti dei nostri utenti è sempre stato il sogno dei ricercatori di user experience.
“Si stanno divertendo? Sono frustrati? Sono sinceramente interessati e coinvolti? Il mio prodotto o servizio soddisfa i bisogni e i desideri delle persone per cui sto progettando?”
Comprendere come un utente si sente veramente in relazione a un’esperienza mediata da un’interfaccia può aiutarci a ottimizzare aspetti specifici dell’esperienza nel far emergere determinati vissuti e di conseguenza migliorare innanzitutto l’interfaccia, ma in fondo l’esperienza e a seconda dei casi, sì, persino la vita delle persone.
In inglese la parola design può essere utilizzata sia come sostantivo che come verbo, assume significati come “intenzione”, “proposito”, “piano”, “intento”, “scopo”, “attentato”, “complotto”, oppure “architettare”, “simulare”, “ideare”, “abbozzare”, “organizzare”, “agire in modo strategico”. Si nota immediatamente come tutti questi significati siano in stretta relazione con un’idea di pianificazione intenzionale, ma anche con i termini “astuzia” e “insidia”. Il termine deriva dal latino signum che corrisponde all’italiano “segno”; così, dal punto di vista della radice etimologica la parola design significa “disegno”. Eppure attualmente tale termine ha assunto un significato internazionale che va ben oltre la sua etimologia. Design in questo senso è progettare, non solo mobili, e designer è progettista, non un ideatore astratto, un produttore concreto al di là dello schizzo grafico, al quale l’accezione di graphic designer ci richiama, ma di tutto il sistema che ruota intorno all’esperienza individuata: oggetti d’uso comune, servizi sanitari, sistemi di pagamento, viabilità cittadina o modello di istruzione pubblica di una società.
Il design, lo abbiamo sottolineato già più volte, deve confrontarsi con la soggettività dell’esperienza e del modo di fare esperienza degli individui. Sarebbe interessante valutare se l’esperienza si fa o si vive, diciamo che il designer, se è bravo la fa, la vive e la fa vivere.
È questa la base teorica dello user-centered design, citato precedentemente, che rileva la diversità delle esperienze individuali, nonostante il comune patrimonio di processi cognitivi e la necessità di recuperare la soggettività, componente non prevedibile e non modellizzabile, pena la perdita di realismo. In questo passaggio la psicologia rinuncia alla pretesa di dare le regole generali del comportamento umano, di proporre norme al design. È il passaggio dall’ergonomia della norma, che vale per tutti, all’ergonomia delle linee-guida, che insistono sulla metodologia di progettazione flessibile e attenta a contesti.
Le relazioni fra ergonomia e design vengono riformulate: entrambe le discipline debbono guardare all’utente, destinatario del processo di progettazione. È l’utente il solo esperto di sé, del suo modo di vivere e di lavorare. La psicologia può offrire degli strumenti che lo possono aiutare nell’esprimere, comunicare questa expertise, che è in gran parte tacita, e quindi muta: si può mostrare, ma non dire. Gli individui sono tutti differenti, progettare per l’utente significa progettare quindi per la personalizzazione (in un senso comunque circolare o iterativo e non individualistico o narcisistico).
In quest’ottica, l’usabilità è un sottoinsieme dell’esperienza utente complessiva. L’usabilità risponde alla domanda “L’utente può raggiungere il proprio obiettivo?” Con efficacia, efficienza e soddisfazione dei risultati (secondo la definizione di usabilità ISO 9241-11). L’esperienza utente risponde anche alla domanda: “L’utente ha avuto un’esperienza il più piacevole possibile nel farlo?”. L’esperienza utente richiede molto più impegno per riuscire a fare bene, ma i risultati hanno un impatto migliore e cambiano i vissuti.
Le definizioni degli esperti:
“L’usabilità è un indicatore di qualità che ci dice quanto una determinata cosa è semplice da usare. Più precisamente, ci dice quanto è necessario imparare a usare quella cosa, con quanta efficienza la si usa poi, quanto si riesce a tenere a mente il funzionamento, quanto è alta la probabilità di fare errori quando la si usa e quanto è piacevole usarla. Se l’utente non riesce o non vuole usare una data funzionalità di un oggetto o di un programma, quella funzionalità potrebbe tranquillamente non esserci.”
Jakob Nielsen e Hoa Loranger
“Lo user expericence design comprende tutti gli aspetti dell’interazione tra l’utente finale e l’azienda, i suoi servizi e i suoi prodotti. Il primo requisito per una user experience esemplare è quello di soddisfare le specifiche esigenze del cliente, senza alcun problema o fastidio.
Solo dopo viene la semplicità e l’eleganza del prodotto che suscitano nell’utente la gioia di possederlo e la gioia nell’usarlo. La vera user experience va ben oltre il dare agli utenti ciò che dicono di volere o fornendo loro tantissime funzionalità. Al fine di ottenere un’alta qualità della user experience, nell’offerta di un’azienda ci deve essere una fusione di molteplici servizi e discipline, tra cui ingegneria, marketing, grafica e industrial design e interface design.”
Jakob Nielsen e Donald Norman
Il campo dell’esperienza d’uso è stato fondato per avere un approccio olistico al modo in cui una persona percepisce e si percepisce mentre utilizza un sistema. L’attenzione si focalizza sul valore e sul significato nell’uso invece che sulle prestazioni. L’esperienza dell’utente comprende, insomma, le emozioni, le credenze, le preferenze, percezioni, le risposte fisiche e psicologiche, i comportamenti e le realizzazioni che si verificano prima, durante e dopo l’uso. Ma anche l’esperienza che l’utente ha del logo del brand, la presentazione, la funzionalità, il sistema delle prestazioni, il comportamento interattivo, lo stato fisico e mentale dell’utente (anche derivante da esperienze precedenti) attitudini, abilità e personalità. E non dimentichiamo il contesto d’uso.
Cercando di contestualizzare queste definizioni nel panorama digitale, l’obiettivo dell’usabilità è quello di creare siti e piattaforme, interfacce e sistemi d’interazione, fruibili e di semplice utilizzo, mentre quello della UX è quello di fornire una memorabile esperienza all’utente prima, durante e dopo l’utilizzo di una specifica piattaforma o interfaccia.
I recenti progressi della tecnologia digitale hanno spostato l’interazione uomo-macchina in pressoché ogni area delle attività umane e questo ha reindirizzato l’attenzione dall’ingegneria dell’usabilità, anche se compresa nel significato più ampio che Norman dà al design, verso un più vasto orizzonte in cui le emozioni degli utenti, i loro valori e motivazioni hanno pari, se non maggiore importanza, dell’efficienza, efficacia e minima soddisfazione soggettiva (le tre tradizionali metriche dell’usabilità).
Per questo serve fare appello alle scienze dell’uomo e alle discipline che studiano sia la psiche che la fisiologia umana, perché il prodotto siamo diventati noi (si veda in merito il nota bene del prossimo paragrafo) e un buon marketer oggi come ieri deve conoscere il prodotto.
I consumatori, che noi consideriamo persone, sono stati emarginati, marginalizzati, ovvero esaltati nelle slide dei convegni, messi come personas su un piedistallo per statue o peggio ancora come base della piramide CBEE (Customer Based Brand Equity Pyramid), ma poi come succede ai santi dei quali si è celebrata la festa, sono stati gabbati per tutto l’anno, in tutti questi ultimi anni.
Usando una prospettiva etnografica e guardando a questa scelta culturale come una esclusione politica, legale e civile potremmo dire che come per alcune popolazioni, come per alcune forme diversità… perché qualcuno si è arrogato il diritto di scegliere per loro, e con forza… come per loro potremmo dire: “Nothing About Us Without Us”.
Il mondo del marketing è chiaramente cambiato. In questi ultimi anni, molti degli strumenti e delle ipotesi con cui siamo cresciuti sono obsoleti e non più validi, tanto è vero che Brian Fetherstonhaugh, Presidente e CEO di Ogilvy One Worldwide, ha proposto di sostituire le tradizionali 4 P del marketing mix (si confronti per un excursus sul tema il mio contributo sulla 5 P di People) con una versione moderna: le 4 E.
Secondo Fetherstonhaugh:
Perché un’azienda sopravviva nell’economia globale altamente competitiva di oggi, deve essere abbastanza flessibile da trasformare il suo ambito di lavoro.
Piuttosto che concentrare i tuoi sforzi di marketing sui prodotti forniti dalla tua organizzazione, che per una ragione o per un’altra cambiano con sempre maggiore velocità, l’esperienza si concentra sull’esperienza del cliente finale, per cui non vendi più prodotti / servizi: ora stai offrendo soluzioni che soddisfano le esigenze di un cliente.
In questo nuovo approccio il prodotto è stato messo da parte e l’esperienza ha fatto il suo ingresso nella scena. Infatti l’esperienza è quella che davvero riesce a coinvolgere i potenziali clienti e attrarli verso una marca. Creando delle emozioni e delle sensazioni positive si può creare un legame fra un brand e i consumatori. Legame che ha buone probabilità di protrarsi nel tempo.
Il prodotto è un attributo dell’azienda, l’esperienza è vissuta dal consumatore, o meglio il combinato disposto dei nostri vissuti nella relazione con una marca o un’azienda.
Per diversi anni, aziende importanti come Google, Apple e Amazon hanno riconosciuto che l’esperienza utente ha un impatto diretto sui risultati economici. Queste aziende non hanno raggiunto il successo per caso. Quotidianamente e costantemente studiano ogni aspetto della propria attività con le persone e i clienti per garantire elevati livelli di soddisfazione.
Nota per il lettore: oggi il prodotto sei tu, forse il dubbio ti era già venuto, nel mondo del digital c’è il motto: “If it’s free, you are the product.”, ma anche se non lo avessi sentito tu sai che il tuo nome e cognome, indirizzo, numero di cellulare, gusti, preferenze sessuali e d’acquisto sono noti a Big G o presenti nella galassia Z (Facebook, Instagram e Messenger) e interessano molto ai pubblicitari di tutto il mondo e sai anche per averlo provato che Amazon tiene più a te e alle tue interazioni che ai prodotti, suoi o di altri, che commercializza e distribuisce.
L’evoluzione dal prezzo allo scambio evidenzia la necessità di riconoscere il valore. Nel mondo di oggi, il prezzo è ancora importante, infatti il fine di qualunque business è la vendita dei prodotti in vista di un profitto, ma è necessario far emergere il valore che si sta offrendo al cliente in cambio di quello che sta pagando, anche se molte persone pensano che la maggior parte dei consumatori sono orientati al prezzo, se questo fosse vero allora tutti comprerebbero al discount! Ci sono molti casi in cui i clienti non seguono il prezzo più basso, ma piuttosto scelgono la soluzione che offre il valore più alto. Questo valore è un qualcosa che il cliente ottiene, oltre al prodotto, dopo avere effettuato l’acquisto. Di conseguenza un’azienda che non vuole rimanere ancorata alle strategie del passato deve pensare a cosa vuole davvero offrire ai propri consumatori pur di avere in cambio concreto la loro attenzione e fedeltà.
Visto che c’è stata un’evoluzione nel modo di intendere lo scambio che avviene fra venditore e acquirente, fra offerta e domanda, e non si tratta più solo di prendere il denaro per dare in cambio un bene, quanto di portare un “valore”, anche il nostro modo di intendere il nostro lavoro deve evolvere e dobbiamo cambiare obiettivo del nostro lavoro, dal profitto al valore (o per meglio dire con le parole di Christian Carniato il fondatore e Amministratore Delegato di TSW riportate in questo accorato articolo: “… ritrovare in esso il valore, e forse il vero ed originale obiettivo, ovvero fare profitto generando valore per gli individui (e solo grazie a questo portare valore agli azionisti”).
Con l’avvento del digitale le modalità di acquisto sono parecchio cambiate. Se prima era necessario fare arrivare i prodotti in punti vendita fisici, adesso con l’e-commerce non è più strettamente necessario avere degli intermediari.
L’acquisto può essere effettuato ovunque e senza vincoli di orario. Ecco perché da place (distribuzione) si passa ad everyplace (ovunque). Si può comprare un bene, così come un servizio, attraverso l’uso del mobile abbattendo ogni confine fisico e velocizzandone il processo.
Il senso di “everyplace”, però, si traduce anche in una solida presenza sui social, così come nella costruzione di un sito web del proprio brand. Così facendo i potenziali clienti possono essere coinvolti più facilmente per poi essere trasformati in consumatori.
‘Ovunque’ riflette la possibilità e la capacità dei consumatori di accedere alle tue soluzioni a loro piacimento, gli sviluppatori di business devono imparare a ‘intercettare’ i loro clienti piuttosto che ‘interrompere’, i clienti devono essere coinvolti quando sono più propensi a essere ricettivi nei confronti del tuo prodotto o servizio; sapendo quanto può essere difficile, i tuoi sforzi di marketing devono essere progettati in modo tale da assicurarti che quando arriva il momento giusto, tu sia lì nella loro mente. Pertanto è necessario sviluppare una forte presenza sia online che offline.
La promozione di un prodotto è tutt’ora fondamentale in una strategia di marketing vincente. Anche in questo caso, però, la pubblicità si è evoluta parecchio. Nella società odierna si fa un uso più moderato di quel tipo di promozione unidirezionale tipico del passato. Il coinvolgimento dei consumatori è diventato un elemento essenziale di un nuovo modo di fare marketing. Si vuole che sia l’acquirente stesso a parlare bene del brand.
Per fare in modo che ciò avvenga, l’azienda deve necessariamente trovare degli argomenti che riguardano da vicino una grossa fetta di popolazione. Se le persone si riconosceranno in quel messaggio, si emozioneranno e saranno favorevoli a veicolare quel particolare tema.
Il brand quindi, piuttosto che decantare le proprie doti, si sforza di soddisfare i clienti al punto da spingerli a consigliare i prodotti spontaneamente. Ecco che i consumatori si trasformano in testimonial della marca in generale e di un prodotto specifico in particolare. Così facendo è il passaparola ad alimentare la reputazione di un marchio.
In questi giorni non è solo importante promuovere i prodotti che stai vendendo, devi imparare come fare un passo in avanti trasformando i tuoi clienti in evangelisti della marca. Se stai promuovendo una soluzione tecnica, spingila oltre istruendo e formando i tuoi potenziali clienti sugli aspetti tecnici della tua soluzione, offri informazioni utili sulla soluzione e istruisci i tuoi ospiti (ovvero aggiungi valore e dai ospitalità ai vissuti, come proposto in questo articolo sul significato profondo del dono e del debito di ospitalità scritto da Christian Carniato), sarai in grado di costruire un rapporto e relazioni personali con loro, questo produrrà un impatto positivo sulla tua attività.
Che tu sia uno studente liceale o un esperto problem solver, un giornalista dilettante o uno scrittore professionista, o un manager che ha seguito corsi di formazione su modello anglosassone o un PM di lungo corso, sarai abituato ad usare per partire con un progetto o avrai comunque sentito parlare delle cinque vudoppie: chi, cosa, dove, quando e perché. Si chiamano così perché in Inglese questi pronomi e avverbi interrogativi iniziano tutti con la doppia vu e sono chiamati “Five Ws”: who, what, where, when, why.
Questo approccio in realtà non viene dal mondo anglosassone, ma è una riduzione di un modello della retorica classica romana (sì prima di essere conquistati dagli angli eravamo noi a dominare quelle terre), in ogni caso questa è la fonte:
Quis, quid, ubi, quibus auxiliis, cur, quomodo, quando?
È una locuzione latina, che tradotta letteralmente significa «chi, che cosa, dove, con quali mezzi, perché, in qual modo, quando?».
È un esametro nel quale sono contenuti i criteri da rispettare nello svolgimento di una composizione letteraria: considerare cioè la persona che agisce (quis); l’azione che fa (quid); il luogo in cui la esegue (ubi); i mezzi che adopera nell’eseguirla (quibus auxiliis); lo scopo che si prefigge (cur); il modo con cui la fa (quomodo); il tempo che vi impiega e nel quale la compie (quando).
L’autore di questo esametro è Cicerone, che nel suo trattato “Rhetoricorum, seu De inventione rhetorica” esprime i principi di costruzione di un’orazione.
Al di là della retorica classica e indipendentemente dalle dimensioni del progetto, quando si devono determinare i requisiti per una soluzione nuova o utili a migliorarne una esistente, è sempre utile ricordare le 5 W, che in italiano suonano:
Chi si occupa di identificare i vari attori e attori in una soluzione.
Questi sono esempi dei tipi di domande che dovresti porre riguardo al “Chi” della soluzione prevista:
Chi ha bisogno di usare o interagire con la soluzione?
Chi trae valore dalla soluzione?
Chi sta pagando per la soluzione?
Chi sosterrà la soluzione?
Chi ha il permesso di eseguire le varie attività all’interno della soluzione?
Chi amministrerà la soluzione?
Chi mi manca?
Aziende o persone?
EFFICACIA:
Parlano le giuste persone? – ORGANIZATION
Parliamo con le persone corrette? – CLIENT
Parliamo alle persone giuste? – CONSUMER
Tante esperienze quanti utenti, ma un’unica risposta che appaia modellata per me, è possibile?
Abbiamo a cuore il consumatore coi suoi idiosincratici momenti per modificare e migliorare la sua esperienza?
Cosa riguarda l’identificazione delle varie funzionalità, dati, input, output, risultati, artefatti, ecc. della soluzione prevista.
Questi sono esempi dei tipi di domande che dovresti porre riguardo al “Cosa” della soluzione prevista:
Quali sono gli obiettivi del progetto e della soluzione?
Che cosa devono essere gli utenti per poter fare intergaire con la soluzione?
Quali sono gli elementi dati principali?
Quali elementi di dati ha bisogno la soluzione per integrarsi con altri sistemi?
Quali sono gli elementi volumetrici per la soluzione (ad esempio, numero di utenti, numero di transazioni, tasso di crescita dei dati, ecc.)?
Quali problemi risolve o attenua la soluzione?
Cosa mi manca?
Prodotti o servizi?
Come ci poniamo nelle interazioni digitali (web, app) e in quelle fisiche (retail, ecc.)?
Quali bisogni o gap vogliamo colmare? Portiamo valori anche informativi? – CONTENUTI
Innovazione è davvero compatibile con affidabilità e semplicità? – USABILITÀ
Il servizio erogato o il prodotto promosso sono davvero i migliori? – PREMIUMNESS
Quale è il valore aggiunto che porta il brand?
La consumer value proposition e i servizi sono chiari a tutti?
Nell’acquisto del prodotto o servizio ci sono transazioni economiche o anche altro trasferimento di valore? – IMPEGNO E VALORE SOCIALE
Lavoriamo su tutti i fronti per far davvero vivere un’esperienza semplice agli utenti?
Dove si occupa di vari aspetti geografici e/o logistici di una soluzione.
Questi sono esempi dei tipi di domande che dovresti porre riguardo al “Dove” della soluzione prevista:
Dove si trovano gli utenti?
Da dove gli utenti devono essere in grado di utilizzare la soluzione?
Dove avverrà la soluzione?
Da quali dispositivi gli utenti devono essere in grado di interagire con la soluzione?
Dove può o dovrebbe essere ospitata la soluzione?
Dove verranno archiviati i dati?
Verso dove si muoverà la soluzione?
Dove si entra in contatto con il prodotto?
Come e dove mi aiutano i servizi o i prodotti che proponiamo nella mia giornata?
Dove trovo il logo?
Le campagne a chi sono rivolte e dove vengono pianificate?
Il luogo dove avviene o l’interfaccia attraverso la quale passa l’interazione è accogliente, esprime il brand o quantomeno è adatto al servizio erogato?
L’esperienza passa in maniera diretta o deve scomparire per essere efficace?
Dove vorrei trovarlo domani?
Il brand è con me, vicino a me?
Quando tratta di vari eventi temporali, attività, ecc. della soluzione prevista.
Questi sono esempi dei tipi di domande che dovresti porre riguardo al “Quando” della soluzione prevista:
Quando deve essere pronta per il lancio la soluzione?
Quando gli utenti devono essere in grado di svolgere attività specifiche?
Quando è necessario eseguire attività periodiche (ad es. giornaliera, settimanale, mensile, trimestrale, annuale, ecc.)?
Quando deve essere disponibile la soluzione per l’uso (normale orario di lavoro, 24/7/365, ecc.)?
Quando può o deve essere non disponibile la soluzione?
Qualche attività ha bisogno di tenere una storia tracciata?
Quando i dati possono essere eliminati dalla soluzione?
La variabile tempo entra positivamente nella giornata degli utenti?
Quanta vita guadagno con il servizio proposto? – EFFICIENZA
La differenza tra il non avere tempo per qualcosa e averlo si chiama interesse! – ENGAGEMENT
Quanto tempo risparmiato dagli utenti vogliamo che venga speso con o per noi?
Se associo il servizio a: più sport, più famiglia, più vita… non è un servizio, ma un dono.
Quanto tempo posso far risparmiare?
Il tempo è la vera valuta delle interazioni! Tempo in più per le cose a cui il cliente tiene e terrà a noi per questo.
Perché si occupa dei vari driver e/o vincoli (interni e/o esterni) imposti su una soluzione.
Questi sono esempi dei tipi di domande che dovresti porre riguardo al “perché” della soluzione desiderata:
Perché è nata la soluzione?
Perché è necessaria la soluzione (ad esempio, cambiamento delle condizioni di business, nuove iniziative, sostituzione del sistema legacy, aggiornamento della tecnologia, ecc.)
Perché ora?
Perché si affermerà?
Quali norme statutarie o organizzative intende soddisfare questa soluzione (vale a dire, le regole che guidano la soluzione)?
Quali regole statutarie o organizzative deve soddisfare questa soluzione (vale a dire, regole che sono vincoli alla soluzione)?
Perché finirà di essere una soluzione?
Il perché è la misura delle relazioni!
La mission del brand è considerata rilevante?
Il consumer benefit è adeguato alle aspettative e alle moderne trasformazioni tecnologiche?
Il coinvolgimento degli attori di volta in volta coinvolti è adeguato? – SODDISFAZIONE
Il miglioramento delle interazioni migliora davvero la vita?
Perché non si può fare a meno di questo prodotto o servizio?
Sarebbe possibile un mondo senza il brand? Sarebbe bello?
Il With è la sesta W, è una variabile per noi necessaria e non è una domanda, ma una congiunzione che ci ricorda la necessità della relazione, cura e ascolto del cliente. Non ci sono domande codificate per una check list, ma questi potrebbero essere degli spunti di indagine:
Il fruitore finale è al centro dell’offerta?
L’utente si vive come qualcuno del quale ci prendiamo cura?
Ha partecipato alla definizione dell’offerta?
Cosa vorrebbe dal brand? Ancora di più o di diverso?
Cura, cortesia, disponibilità, prontezza e sollecitudine nel rispondere alle richieste, anticipazione dei bisogni sono qualità associate al brand?
La comunicazione è adeguata alla migliore esperienza possibile e coerente con l’esperienza quotidianamente vissuta dal cliente finale?
Sappiamo ascoltare?
Ci mettiamo davvero in relazione e in discussione coll’utente nel proporre i nostri servizi? – USER-CENTERED DESIGN
Ora al di là delle check list e dei modelli standard proviamo a capire perché per noi le domande sono importanti e a quale radicale richiamo ci hanno portato.
Per farlo proviamo con un esperimento ortografico: se sostituiamo la ‘W’ nelle 5 W inglesi (where, when, what, why, who) con una ‘T’ forse ci potremmo stare avvicinando davvero a rispondere alle domande o cmq al nocciolo della questione…
Infatti:
Dove diventa Là (where->there)
Quando diventa Allora (when->then)
Cosa diventa Quello (what->that)
Perché diventa Tuo (why->thy; archaic as in “Honor thy father”)
e
Chi diventa Tu (who->thou; archaic as in “Thou shalt not kill”)
Ok, ma qual è il punto allora? Ho suggerito di cambiare una consonante nelle famose W del giornalismo anglosassone solo per ricordare che dovrebbe esserci uno spostamento verso l’assunzione di responsabilità personale invece di lasciare le domande senza risposta… per questo entra in gioco il WITH, la sesta W e un punto di vista relazionale, dal momento che è nel confronto con l’Altro che emergono gli spunti più interessanti e per esperienza la soluzione è spesso vicina al soggetto.
Invece di cercare una spiegazione estrinseca, il WITH è un metodo relazionale per portare alla luce un significato intrinseco o un valore interiore che parte dalla presa di coscienza secondo la quale innanzitutto il ‘chi’ e il ‘perché’ o sono interiorizzati o non hanno molto senso…