Nella giornata di giovedì 18 giugno, il Parlamento europeo ha votato un provvedimento passato sin qui sottotraccia, ma che rischia di avere risvolti straordinariamente dirompenti nel mondo digitale.
Paul Tang, eurodeputato socialista olandese, ha proposto di vietare la pubblicità personalizzata in Internet. Proposta che ha ricevuto un consenso schiacciante, con 503 voti favorevoli su 701. Estremamente soddisfatto Tang, che ha commentato così: “Con questa dichiarazione, il Parlamento europeo lancia un sasso, come Davide a Golia, verso la testa dei giganti tech Americani. Queste aziende continuano a usare i nostri dati personali come un modello di ricavi per escludere i concorrenti. Nonostante questa sia la prima pietra lanciata, è un passo significativo contro il potere delle big tech”.
Quali risvolti avrà questo provvedimento? Facebook e Google dovranno affrontare la più estrema delle resilienze, rivedendo il proprio modello di business? Ma soprattutto: come si è arrivati a un’avversione così conclamata verso le inserzioni online? Ecco, partiamo da qui. Anzi no, facciamo un passo indietro, e partiamo dai motivi per i quali la pubblicità online ha scalzato quella sui media tradizionali.
Quando parliamo di pubblicità, a prescindere dal canale in cui essa viene piazzata, i soggetti fondamentali sono sempre gli stessi tre. L’azienda inserzionista, l’agenzia che svolge il ruolo di consulente media e le persone destinatarie delle inserzioni.
E gli obiettivi, per ciascuno dei tre soggetti, sono chiari e conclamati, immutabili nonostante l’evoluzione di mezzi e formati. Anche nell’online advertising, l’azienda mira alla conversione, sia essa l’acquisto di un prodotto, la sottoscrizione di un abbonamento, la compilazione di un form o altro. L’agenzia di consulenza condivide i suoi obiettivi con l’azienda: ottimizzare l’efficienza dell’inserzione, ottenendo il maggior numero di risultati a fronte del minor costo possibile. I destinatari, invece, si accontentano di due cose: non essere disturbati da pubblicità troppo invadenti, e soprattutto non in linea con i propri interessi.
Obiettivi che la pubblicità online è in grado di soddisfare (quasi) alla perfezione. A discapito della pubblicità veicolata sui media tradizionali (tv, stampa, radio, affissioni), le agenzie consulenti sono in grado di monitorare con precisione quasi istantanea le prestazioni di ogni inserzione, intervenendo altrettanto istantaneamente per correggerne l’andamento. In questo modo, si riesce a garantire all’azienda inserzionista la migliore ottimizzazione possibile del budget messo a disposizione. E le persone?
Qui subentrano i motivi che hanno portato aziende come Facebook e Google a giocare un quarto ruolo di importanza non indifferente. Perché la pubblicità su Google ha così successo? Perché Google conosce perfettamente cosa cerchiamo con maggiore interesse. Perché la pubblicità su Facebook ha così successo? Perché Facebook raccoglie costantemente dati sul comportamento delle persone al suo interno, riuscendo così a tracciarne un profilo sufficientemente accurato.
Nell’ultimo periodo di lockdown abbiamo cercato un monitor da installare sulla scrivania di casa per facilitare lo smart working? Se questa ricerca è avvenuta attraverso Google, e se a questa ricerca sono seguiti click su alcuni dei risultati apparsi dopo la ricerca, ecco che Google conoscerà perfettamente quali modelli di monitor ci interessano, e il grado di intensità di tale interesse. Se un’azienda che produce monitor volesse sottoporci le sue inserzioni, non dovrebbe fare fatica a presentare se stessa e i propri prodotti: noi siamo già in una fase avanzata del processo di conversione, ci basterà vedere se il monitor proposto dall’inserzione incontra o meno il nostro gusto.
Siamo appassionati di calcio, e su Facebook seguiamo numerose pagine che affrontano questo tema? Grazie a questo interesse, proprio su Facebook abbiamo stretto nuovi legami, nutriti e coltivati grazie a interazioni quotidiane attorno al tema? E come abbiamo potuto ravvivare il nostro interesse durante il lockdown, quando ogni campionato sportivo si è (fortunatamente) fermato? Sarà un caso che vi sia comparso quel post che vi propone di acquistare il Blue-ray con tutte le partite dell’Italia ai Mondiali 2006? Facebook sa cosa ci piace e cosa invece no, perciò difficilmente vedremo inserzioni di prodotti lontani dai nostri gusti e dal nostro universo valoriale. Come fa a sapere tutto questo di noi, Facebook? Glielo abbiamo detto proprio noi.
Un successo tale che ha portato le aziende a investire budget pubblicitari sempre più ingenti, che hanno avuto – tra i tanti – due effetti spesso sottovalutati. Hanno affollato i feed e la mente delle persone di un numero non gestibile di comunicazioni tra cui districarsi. E hanno legato a doppio filo la propria sostenibilità economica a questo modello di business, come vedremo più avanti.
Tuttavia, come ha dichiarato Joanna Coles (ex Chief Content Officer di Hearst Magazines) all’Advertising Week 20019: “Le persone odiano la pubblicità. Ed è tutta colpa dei pubblicitari”. Un’affermazione molto forte, ma confermata pochi secondi dopo da Marc Pritchard, Chief Brand Officer di Procter & Gamble: “Abbiamo provato a cambiare l’ecosistema dell’advertising facendo più pubblicità, e non ha fatto altro che creare più rumore”. E proprio in questo punto, secondo diversi esperti del settore, risiede uno dei principali motivi del crollo del gradimento della pubblicità. Secondo uno studio condotto negli Stati Uniti, un americano è esposto mediamente a un numero che varia da 4.000 a 10.000 pubblicità al giorno. Letteralmente un sovraccarico informativo che disturba i destinatari, facendoli desistere da qualsiasi azione più impegnativa della mera impression (visualizzazione dell’annuncio) regalata all’inserzionista di turno.
Un sovraccarico aumentato a dismisura sui media digitali, dove spazio, tempo e occasioni per intercettare annunci pubblicitari sono decuplicati rispetto al passato. Un sovraccarico che nel 2019 ha portato quasi 1 persona su 3 a utilizzare un’applicazione di ad blocking per interrompere la visualizzazione di inserzioni online ritenute non pertinenti o semplicemente troppo ripetitive.
Infine, un sovraccarico tale di pubblicità online che spesso e volentieri impedisce alle persone di osservare e valutare con consapevolezza la differenza di sforzo creativo tra i vari annunci pubblicitari. Questo perché i canali digitali, in primis i social network, hanno portato molti inserzionisti a privilegiare la visibilità a fronte della rilevanza. Un ring senza corde laterali che si apre a un numero potenzialmente infinito di player e inserzionisti, in cui l’unico modo per emergere dalla zuffa è quello di spendere budget media più elevati.
Alla luce di tutto ciò, il quadro dell’online advertising è più completo; e una conseguenza come quella sfociata nel provvedimento del Parlamento europeo figura come sorprendente, ma non può dirsi inaspettata.
E per capirne a pieno la portata – potenzialmente debordante – è necessario fare un punto sul modello di business di Facebook e Google, i due principali player della raccolta pubblicitaria online. Secondo i dati di Statista, Google ha chiuso il 2019 con un fatturato pari a 160,74 miliardi di dollari: di questi, 134,81 miliardi (l’83,8% del totale) proviene dalla raccolta pubblicitaria. Un rapporto che aumenta vertiginosamente nel bilancio di Facebook: nel 2019, i ricavi pubblicitari (69,7 miliardi di dollari) hanno inciso per il 98,5% del fatturato totale.
Una dipendenza estremamente solida e pericolosa, a fronte della decisione del Parlamento europeo di vietare l’uso dei dati personali degli utenti per veicolare inserzioni pubblicitarie fortemente personalizzate. Se Facebook e Google non potranno fare leva sul loro grado di conoscenza degli utenti, le aziende inserzioniste non potranno più veicolare annunci pubblicitari creati su misura per i destinatari, stimando un grado di efficienza (tra risultati e costi) che stima la perfezione. Se gli inserzionisti saranno costretti a ridurre la personalizzazione degli annunci, significa che dovranno tornare a tattiche pubblicitarie più “ampie”, replicando l’asimmetria informativa che per anni ha regolato il funzionamento della pubblicità. Creare annunci pubblicitari forti e distintivi da sottoporre a un pubblico ampio, al cui interno si annidano tuttavia persone fortemente interessate al messaggio. Assisteremo a un nuovo aumento dei costi pubblicitari? Si apriranno scenari catastrofisti per inserzionisti, agenzie media e consulenti?
Assolutamente no, specialmente se a Facebook, Google e gli altri operatori dell’online advertising verrà lasciata la possibilità di raccogliere dati aggregati sull’andamento delle inserzioni al loro interno. Anzi, sarà l’occasione per affinare le capacità di monitoraggio, analisi ed elaborazione di questi dati. In primis le agenzie saranno chiamate a un approccio analitico più approfondito e puntuale, lavorando alacremente per leggere il comportamento delle persone. E si dovrà ripartire soprattutto da una migliore definizione dei KPI, i Key Performance Indicators che tutti i soggetti della comunicazione condividono per valutare efficacia ed efficienza della stessa. Si dovranno mettere da parte le vanity metrics, indicatori fortemente legati al tempismo con cui un annuncio viene presentato, e ci si dovrà concentrare maggiormente su metriche più significative per l’obiettivo inizialmente condiviso tra azienda e agenzia. Meno spazio alle interazioni e ai follower, e più attenzione al CPM (costo per mille persone raggiunte) e al CTR (Click Through Rate, tasso di propensione al clic).
Inoltre, si dovrà intervenire anche sulla creatività degli annunci, che dovranno tornare a essere rilevanti e veramente allineati al modus pensandi delle persone. Infatti, secondo Keith Weed, ex Chief Marketing Officer di Unilever, un altro grosso problema della pubblicità risiede nella fiducia: “Un brand senza fiducia è solo un prodotto, e la pubblicità senza fiducia è solo rumore”. Sono finiti i tempi di Mad Men, e anche Le Armi della Persuasione – capolavoro di Robert Cialdini su come attuare azioni di marketing dal successo quasi ineluttabile – rischia di finire per accumulare polvere sulla vostra libreria.
Le persone vogliono fidarsi dei brand, vogliono dialogare con aziende che diano consistenza e futuro alle proprie affermazioni. Le persone sono disposte a giocare un ruolo attivo di fronte a comunicazioni coerenti, effettivamente funzionali e non inutilmente pretenziose.
Nel nostro caso, è quanto successo sulla pagina Facebook di ULSS2 – Marca Trevigiana, azienda ospedaliera di Treviso e provincia. Durante il lockdown imposto dalla pandemia di COVID-19, grazie a una comunicazione aperta e onesta nei confronti delle persone, questo ente è stato premiato dal suo pubblico, ottenendo risultati straordinari senza nemmeno investire in budget pubblicitari. La pubblicità online non è morta, dovrà solo adeguarsi al nuovo ecosistema nato attorno.